Diga di Molare: le 9 ore che sconvolsero Valle Orba e Borgo
Una tragedia oltre il tempo
OVADA – Sembra impossibile, guardando oggi l’Orba pressochè in secca, immaginare che novant’anni fa il torrente fu in grado di spazzare via l’intero rione del Borgo. Eppure, l’estate del 1935 non fu molto diversa da quella che stiamo vivendo. Caldo, tanto caldo. Soprattutto una siccità prolungata che alimentava la rabbia dei contadini della valle Orba. La terra era diventata impossibile da lavorare. Le conseguenze si sarebbero fatte sentire nei mesi successivi. Invece bastarono solo nove ore a sconvolgere la Valle Orba. Il 13 agosto 1935 la diga di Molare crollò. In realtà a collassare fu l’invaso secondario, costruito a valle di quello principale per rimediare a difetti di progettazione e “migliorie” apportate in corso d’opera per incrementare il quadro economico di Officine Elettriche Genovesi.
Un fiume di acqua e soprattutto fango si riversò sulla periferia bassa tra Molare e Ovada e sfogò la sua rabbia nel Borgo, rione collocato oltre l’Orba. Il ponte di collegamento con il centro non resse l’urto e fu distrutto. Le due città coinvolte stanno per celebrando in questi giorni la ricorrenza con un programma di convegni e momenti istituzionali. Nel frattempo “Urbs”, la rivista curata dall’Accademia Urbense di Ovada, ha pubblicato un numero in cui alla ricostruzione del quadro storico della tragedia si concede rinnovato spazio con dettagli pressoché inediti.
Una storia difficile
Orba amico e crudele carnefice. «Il mattino del 13 agosto 1935 – ricorda Walter Secondino, collaboratore di lungo corso dell’Accademia Urbense – gli abitanti del Borgo di Ovada si svegliarono con le strade completamente allagate». Durante la notte era piovuto. Ma il nubifragio si manifestò con un’intensità con pochi precedenti dalle 7.30 di quel mattino. Solo una ventina d’anni prima, secondo i più anziani, s’erano toccati quei picchi. Ma all’epoca la diga non c’era. Walter Secondino ha rivissuto più volte quel momento, le immagini più drammatiche davanti agli occhi. Oggi è forse l’ultimo superstite, all’epoca era un bambino di sette anni.
Il rischio di esondazione si manifestò già alle 9.30 all’altezza della centrale dei frati di Ovada, in linea d’aria a un centinaio di metri dal punto in cui la tragedia assunse le proporzioni peggiori. Alle 13.15 la Diga Secondaria collassò sotto la spinta di 25 milioni di metri cubi di acqua e fango. Il vicino ponte di Molare fu letteralmente inghiottito.
Verso Ovada, l’ondata fece le prime sette vittime in località Monteggio a stretto contatto con il greto del torrente. I più fortunati si salvarono arrampicandosi sul tetto delle loro cascine. Nell’area oggi occupata dal Geirino furono registrate altre quattro vittime. Il ponte della Veneta, costruito trent’anni prima nell’ambito della realizzazione della linea ferroviaria Ovada – Alessandria, resistette. L’ondata arrivò al Borgo un’ora dopo il crollo, le vittime furono 65. Alle 14.30, beffardamente, cessò di piovere.
Dolore diffuso
L’ultimo saluto alle prime settanta vittime si tenne il 15 agosto. I giornali italiani dedicarono solo poche righe all’accaduto; quegli eventi ebbero un’eco molto vasta sulle prime pagine dei giornali europei e americani. Il problema del grande numero degli sfollati fu risolto con la costruzione dei cosiddetti “casoni”, grandi stabili dislocati un po’ ovunque tra Molare e lo stesso Borgo.
Il processo avviato per stabilire le responsabilità a carico di progettisti e costruttori di concluse nel 1938: tutti i dodici imputati furono assolti. La relazione redatta da Giulio De Marchi (Ordinario di Idraulica del Politecnico di Milano) attribuì la causa di quanto accaduto alle proporzioni inusitate dell’evento atmosferico.
«Le sue vittime – scrisse in uno dei passaggi più controversi – si sono aggiunte alle innumerevoli delle quali è seminato il faticoso cammino del lavoro umano, e che segnano le tappe dolorose di ogni suo progresso».