Storia economica e sociale di Valenza nel Nuovo Millennio, 2000-2010
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
3 Agosto 2025
ore
08:28 Logo Newsguard
Il saggio

Storia economica e sociale di Valenza nel Nuovo Millennio, 2000-2010

L'approfondimento del professor Maggiora

VALENZA – Il terzo millennio non si apre con una fanfara di promesse e nuove fondamenta, bensì con un cupo preludio di distruzioni e incertezze. Lungi dall’essere un’alba di speranza, si manifesta come un crepuscolo gravido di presagi. L’estate del 2001, marchiata a fuoco nella memoria collettiva, si dipinge con i colori lividi degli scontri di Genova, durante il G8. Le telecamere, impietose, riversano nelle case di tutto il mondo immagini di guerriglia urbana, di terrore palpabile e, infine, della morte che serpeggia tra le vie cittadine. Manifestanti e forze dell’ordine si fronteggiano in una danza macabra, simbolo di una crescente disillusione e di una frattura insanabile tra potere e società civile.

Il respiro del mondo si ferma, sospeso in un’angoscia crescente, solo due mesi dopo. L’11 settembre a New York, una data destinata a rimanere impressa per sempre nella storia, vede il cielo squarciato dalla furia cieca del terrorismo. Aerei, trasformati in strumenti di morte da mani fanatiche, si schiantano contro le Torri Gemelle, simboli incontrastati della potenza economica americana. Il loro crollo, trasmesso in diretta televisiva, è un trauma globale, un evento cataclismatico che segna la fine di un’epoca e l’inizio di un nuovo, inquietante capitolo. Il fumo acre e le macerie diventano l’emblema di una vulnerabilità inattesa, di una sicurezza illusoria.

Nel frattempo, l’Europa tenta di compiere un passo audace ma fragile, verso l’integrazione. Nasce l’euro (1° gennaio 2002), una moneta unica voluta con forza da un ristretto gruppo di banchieri, un progetto ambizioso che però poggia su fondamenta precarie: l’assenza di una vera e propria unità politica. L’euro, figlio di una visione tecnocratica, si rivelerà ben presto una sfida complessa, un terreno minato di squilibri e tensioni.

Siamo ancora nell’età della globalizzazione (1989-2008), l’Italia, in questo scenario globale incerto, si trascina in un declino apparentemente inarrestabile. Il Paese è gravato da anni di stagnazione economica, soffocato da un debito pubblico crescente e da un sistema previdenziale al collasso. I contributi sociali raggiungono livelli record, necessari per sostenere le pensioni di una popolazione sempre più anziana. La crescita ristagna ben di sotto della media europea, le retribuzioni stentano a decollare e il sistema scolastico e universitario mostra segni di affaticamento, incapace di competere a livello internazionale. La pubblica amministrazione, elefantiaca e inefficiente, si rivela un fardello per i cittadini, complicando la loro vita quotidiana e drenando risorse preziose.

Valenza, in questo contesto nazionale problematico, subisce con particolare intensità gli scossoni del nuovo millennio. La città dormitorio, nel cuore del distretto orafo, sperimenta una profonda trasformazione, che tocca la sfera economica, sociale e ambientale. Se l’economia italiana arranca, quella valenzana sembra sprofondare in una stagnazione e instabilità lavorativa ancora più profonda.

La crisi del settore orafo, legata alla concorrenza internazionale e ai cambiamenti nei gusti dei consumatori, si abbatte sulla città come una tempesta, lasciando dietro di sé disoccupazione, chiusure di attività e un senso di smarrimento diffuso. Il futuro, un tempo radioso e promettente, adagiato sul benessere diffuso, si sta tingendo d’incertezza e preoccupazione. Sono falliti tanti falsi miti ai quali per troppo tempo si è creduto, sono finite anche le squassanti passioni politiche di un tempo e pensare che certi bisogni valgano ancora significa non aver inteso la mutazione avvenuta. Esiste poi una certa realtà sociale molto peggiore di quanto venga immaginata.

La situazione economica si fa sempre più critica, stringendo la morsa sui più vulnerabili, lasciando ampi strati della popolazione senza risorse e che spesso auspica la forca. I più indigenti, già a corto di denaro, si trovano ad affrontare difficoltà crescenti. Nel frattempo, lo spazio tra ricchi e poveri si allarga a dismisura, creando un abisso sempre più profondo. Un tempo baluardo di stabilità e prosperità, la classe media si ritrova ora a fronteggiare un’erosione continua del proprio potere d’acquisto.

Nel corso del decennio, l’andamento positivo che aveva caratterizzato la crescita economica di Valenza per molti anni subisce un brusco rallentamento. Le fasce di reddito medie si livellano verso il basso, erodendo il benessere di chi un tempo apparteneva al ceto di mezzo. L’occupazione, un pilastro fondamentale per la società, vacilla e perde terreno, generando problematiche sociali di notevole entità. La classe media locale, un tempo solida e numerosa, si assottiglia progressivamente, rischiando una frammentazione irreversibile e, nel peggiore degli scenari, la sua completa scomparsa. La società valenzana, di conseguenza, si trasforma in un sistema duale, caratterizzato da una marcata polarizzazione: da un lato, un’élite sempre più agiata e opulenta, che accumula ricchezze in maniera sproporzionata; dall’altro, una massa crescente di individui sempre più a corto di denaro, costretti a lottare per la sopravvivenza. In mezzo a questi due estremi, lo spazio si riduce drasticamente, lasciando quasi più nulla a colmare il divario. Le opportunità per l’ascesa sociale si restringono, e la mobilità sociale diventa un miraggio lontano sempre più ermetico.

A questa difficile situazione economica si aggiunge una preoccupante tendenza demografica. L’indice di vecchiaia, che mette in relazione il numero di persone con più di 65 anni con quello dei bambini e ragazzi fino a 14 anni, rivela un invecchiamento progressivo della popolazione valenzana. Nel 2002, si contavano 195 anziani ogni 100 giovanissimi; nel 2010, questa cifra è salita a 212. Le culle restano vuote, segno di un calo della natalità che accentua ulteriormente lo squilibrio demografico.

La popolazione, in gran parte in là con gli anni, si trova a subire una sorta di stigma sociale, quasi come se la società li incolpasse di non voler morire, sottolineando implicitamente il peso economico e sociale che la loro longevità comporta. Nel frattempo, il concetto di gioventù sembra essersi dilatato fino a includere i cinquantenni, forse per una problematicità ad affrontare la verità di una società che invecchia rapidamente e fatica a dare spazio alle nuove generazioni. La difficoltà per i giovani di trovare lavoro e costruire il proprio futuro contribuisce ulteriormente a questo prolungamento artificiale della gioventù, lasciando molti in una sorta di limbo tra l’adolescenza e l’età adulta.

L’idea di maternità, un tempo considerata un cardine della vita familiare e sociale, sembra aver assunto i contorni di un’opzione sempre meno desiderata e più facilmente rinunciabile. A testimonianza di questo mutamento culturale e sociale, i dati demografici relativi al Comune di Valenza rivelano una tendenza preoccupante, e non è certo solo. L’indice di natalità, indicatore che esprime il rapporto percentuale tra il numero delle nuove nascite e il numero di abitanti residenti, subisce un calo significativo nell’arco di questo decennio. Se nel 2002 si attestava ancora su un valore di 8,7 nati ogni mille abitanti, le proiezioni per il 2012 lo vedranno scendere a un più allarmante 7 per mille. Questa diminuzione della natalità si riflette anche nella composizione media dei nuclei familiari. Nel 2003, la media dei componenti per famiglia a Valenza è di 2,18 (con una popolazione di 20.443 individui distribuiti in 9.318 famiglie). Otto anni dopo, nel 2011, questo valore si è contratto a 2,07 (con 19.680 abitanti e 9.435 famiglie).

Questi numeri, apparentemente piccoli, celano un cambiamento più profondo nella struttura sociale e nelle dinamiche familiari. Ma per quale motivo ciò accada le opinioni divergono. Nei primi anni del nuovo millennio, ancora pervasi da un certo ottimismo e da promesse di prosperità, una parte notevole della popolazione valenzana beneficia di stipendi, seppur modesti, sufficienti a garantire una vita dignitosa non solo al lavoratore stesso, ma anche ai suoi familiari, che siano essi coniugi, conviventi, figli o altri parenti. Questa situazione, tuttavia, si deteriora negli anni successivi quando molti lavoratori si ritrovano improvvisamente esclusi dal ciclo produttivo, vittime di licenziamenti e crisi aziendali.

Questa nuova realtà, ancor più drammatica rispetto alle tradizionali difficoltà di inserimento lavorativo dei giovani, genera una disoccupazione adulta, che colpisce i capifamiglia, privandoli della loro fonte di sostentamento. Si assiste a un’evoluzione preoccupante, passando da una disoccupazione giovanile, concentrata prevalentemente nella fascia di età inferiore ai 30 anni e legata all’ingresso nel mondo del lavoro, a una disoccupazione sempre più matura, che investe lavoratori con esperienza e responsabilità familiari. In numerose famiglie valenzane, il padre, figura un tempo centrale nell’economia domestica, ha perso il lavoro nel settore dell’oreficeria, pilastro dell’economia locale, senza alcuna prospettiva concreta di reinserimento. I figli, dal canto loro, conseguono diplomi che spesso si rivelano inadeguati alle esigenze del mercato del lavoro, incrementando la frustrazione e l’incertezza sul futuro.

In un paradosso amaro, molti nonni sono costretti a sostenere economicamente i nipoti, utilizzando le loro pensioni per far fronte alle difficoltà economiche della famiglia, mentre questi ultimi si trovano ad affrontare la prospettiva, altrettanto paradossale, di non poter mai usufruire di una pensione propria. A riprova della struttura economica locale, un’analisi della popolazione residente occupata nel 2001 rivela la seguente distribuzione per settore: agricoltura 132 unità, industria 4.926 unità (con una forte concentrazione nel settore orafo), commercio 1681.

La preminenza dell’industria orafa sottolinea la vulnerabilità del territorio alle crisi di questo specifico settore. Questa dipendenza da un’unica attività produttiva rende la comunità più esposta alle fluttuazioni del mercato e ai cambiamenti economici globali, amplificando l’impatto negativo della disoccupazione e della precarietà lavorativa sulla vita delle famiglie valenzane. La combinazione di questi fattori demografici, economici e sociali delinea un quadro complesso e preoccupante per il futuro di Valenza e delle sue famiglie.

Nel comparto del credito-assicurativo si contano 605 addetti, a cui si aggiungono altri 1.302 impiegati in altri settori.

Il totale degli occupati residenti nel 2001 ammonta a 8.756 unità. Questo dato, se confrontato con le cifre del passato, rivela un trend preoccupante: nel 1981 si registravano 9.456 occupati residenti, scesi a 9.139 nel 1991, evidenziando una lenta ma costante erosione dell’intreccio lavorativo locale. Analizzando la composizione della rete imprenditoriale nel 2010, si osserva una ripartizione specifica: le imprese manifatturiere rappresentano 1.111 unità, seguite dal settore delle costruzioni con 225 imprese, dal commercio con 798 e dai servizi con 552. Tuttavia, il dato più allarmante riguarda la drastica riduzione della manodopera orafa, un comparto tradizionalmente forte nel territorio, che subisce una contrazione del 30%, un vero e proprio crollo che mette a rischio un’eccellenza artigianale.

Le piccole imprese valenzane, cuore pulsante dell’economia locale, si trovano ad affrontare una sfida sempre più ardua a causa dei costi di gestione, in costante aumento, che rischiano di diventare insostenibili. Questa situazione solleva interrogativi profondi sul futuro dell’artigianato orafo: come può un giovane, desideroso di seguire le orme dei maestri orafi, osare intraprendere questa strada, gravata da tali difficoltà economiche? E chi già opera in proprio, con passione e dedizione, non fosse altro per ragioni di opportunità, come può permettersi di assumere nuovo personale, sapendo di innescare una catena di obbligazioni che potrebbero rivelarsi fatali per la propria attività? Questo scenario critico si ripercuote inevitabilmente sul prezzo finale degli oggetti di oreficeria, che già si scontrano con la concorrenza agguerrita dei prodotti provenienti dai paesi orientali. In queste nazioni, i costi di manodopera sono notevolmente inferiori, rendendo i prodotti estremamente competitivi sul mercato globale.

La combinazione di costi di gestione elevati, calo della manodopera specializzata e concorrenza estera spietata, pone serie minacce alla sopravvivenza dell’artigianato orafo valenzano, un patrimonio culturale ed economico che merita di essere tutelato e valorizzato. Urgono, pertanto, interventi mirati e politiche di sostegno che possano alleggerire il carico fiscale sulle piccole imprese, incentivare l’assunzione di giovani talenti e promuovere la qualità e l’unicità dei prodotti artigianali valenzani sui mercati internazionali.

Purtroppo, dettaglio non secondario, al consumatore non frega niente dello sfruttamento della manodopera o della contraffazione, a lui interessa acquistare a basso costo.

La crisi che attanaglia il settore manifatturiero italiano, e in particolare il distretto orafo di Valenza, colpisce con particolare virulenza le aziende posizionate nel segmento medio del mercato. Queste, spesso legate a strategie tradizionali e meno inclini all’innovazione radicale, si trovano schiacciate tra la concorrenza spietata dei prodotti a basso costo provenienti dai mercati emergenti e le aziende di alta gamma capaci di mantenere un’immagine di esclusività e prestigio. Detto in parole povere, molte non vedono l’ora di togliersi dai guai mollando tutto.

Le imprese che riescono a resistere, e in alcuni casi a prosperare, sono quelle che hanno saputo reinventare il proprio modello di business, integrando e diversificando il ciclo produttivo. Questa capacità di adattamento si traduce nella ricerca continua di nuovi mercati e nella capacità di personalizzare l’offerta per soddisfare i bisogni di una clientela sempre più esigente e globale. L’innovazione, sia di prodotto che di processo, diventa quindi un fattore cruciale per la sopravvivenza e la crescita.

In questo clima di incertezza e preoccupazione, segnato da chiusure e ridimensionamenti, nel 2007 prende il via l’eclatante costruzione del nuovo centro espositivo Expo Piemonte (Palafiere) di Valenza. Questo ambizioso progetto è concepito come una vetrina per l’eccellenza orafa locale e come un potenziale volano per il rilancio dell’economia valenzana, provata dalla crisi.

L’inaugurazione ufficiale avviene nell’ottobre del 2008, in concomitanza con la XXXI edizione di “Valenza Gioielli”, la fiera più importante dell’anno. Allora fiato alle trombe, ma più di tutto fiato ai tromboni, invece, le aspettative riposte nel Palafiere si rivelano ben presto disattese. Nonostante le nobili intenzioni e gli ingenti investimenti, il centro espositivo sembra riproporre i vecchi schemi di una Valenza che non sussiste quasi più, un’immagine forse idealizzata e lontana dalla oggettività del mercato globale, un Novecento che qui non si rassegna a finire. Alcuni critici asseriscono che il progetto sia stato viziato da una visione eccessivamente ambiziosa, forse alimentata dalla «megalomania» della classe politica locale, con risultati deludenti rispetto alle risorse impiegate. Il Palafiere rischia di diventare una mera «fiction», un’immagine patinata che non riflette la sostanza del settore orafo valenzano.

Questo nuovo Centro fieristico Expo Piemonte, un’opera che appare volutamente esagerata e, a posteriori, quasi assurda (e che dopo poco tempo assume un’aura «metafisica», quasi spettrale), conserva comunque un suo fascino intrinseco, derivante anche dal fatto di rappresentare il più grande investimento di denaro pubblico realizzato a Valenza negli ultimi decenni. La struttura, tuttavia, sembra un «feto adulto», un progetto nato già «decomposto», privo di vitalità e incapace di raggiungere il suo pieno potenziale. La sua immagine viene sulle prime distorta e presentata in modo non veritiero, alimentando la confusione e l’illusione.

Il centro espositivo sorge su un’area di 139.000 metri quadri. La struttura offre circa 8.000 mq destinati all’esposizione e circa 4.000 mq ad attività commerciali e di servizio. Il costo finale del tutto si aggira intorno ai trenta milioni di euro, una cifra considerevole che solleva interrogativi sull’efficacia dell’investimento e sulla reale capacità del Palafiere di rilanciare l’economia valenzana che si dimostra divisa e sempre più gregaria dei grandi brand. La speranza è che, nonostante le difficoltà iniziali, il centro espositivo possa ancora trovare una sua ragion d’essere e contribuire al futuro del distretto orafo, magari attraverso una riprogettazione strategica e una maggiore attenzione alle esigenze del mercato.

L’album ingiallito delle illusioni, un tomo consunto le cui pagine oggi odorano di polvere e speranze disattese, rievoca con una certa amarezza l’enfasi, l’eccessivo ottimismo e gli abbagli che avevano accolto l’avvento di un’opportunità consistente, un investimento che, a conti fatti, non ha, purtroppo, mantenuto le sue promesse.

Probabilmente, come diverse altre organizzazioni locali di supporto al lavoro, spesso confinate in ristrette cerchie corporative e avvolte in un’aura di privilegio (associazioni chiuse in falansteri dorati dove riecheggiano solo i propri echi), molti nutrono ancora in questi anni la vana speranza che la crisi economica e la persistente poca fortuna cessino per un inatteso intervento divino, una sorta di miracolo che risolva magicamente i problemi. Purtroppo, la realtà è ben diversa: ci troviamo sull’orlo di un baratro economico e sociale, dove tutto sembra inesorabilmente svanire e dissolversi come fumo al vento, dove gli esercizi di smarcamento e certi amori platonici praticati da alcuni sono semplicemente delle furbizie.

Gli orafi valenzani, simboli di una tradizione artigianale secolare, continuano, però, a portare a spasso, quasi come una croce, il marchio infamante dell’evasore fiscale, una moderna e più insidiosa incarnazione del diavolo, un capro espiatorio perfetto per tutte le frustrazioni economiche. Sono metodicamente perseguitati, additati al pubblico ludibrio come se fossero, per definizione e senza appello, frodatori fiscali indomiti e irriducibili, nonostante siano già vessati da un sistema di imposte bislacche e inique che assomigliano sempre più a taglie medioevali, estorsioni legali che minacciano la loro stessa sopravvivenza, e da creditori volatili, entità finanziarie sfuggenti e senza scrupoli pronte a sparire al primo segnale di difficoltà.

È pur vero, tuttavia, che gli abitanti di Valenza, almeno secondo le statistiche, pare non brillino per particolare generosità nei confronti del fisco. Nel 2010, un dato sconcertante rivela che solo un contribuente su 99 ha dichiarato un reddito annuale superiore a 100 mila euro, mentre ben 1.512 si attestano al di sotto della soglia dei 10 mila euro (un primato negativo che li colloca tristemente all’ultimo posto tra i centri zona della provincia). A peggiorare ulteriormente il quadro, il reddito medio Irpef dichiarato, che nel lontano 2001 si attestava su una cifra dignitosa di euro 14.670, nel 2016 si è eccentricamente e inspiegabilmente ridotto a soli euro 14.395, un calo che solleva interrogativi inquietanti sulla reale situazione economica della cittadinanza e sulle strategie messe in atto per affrontarla.

La città di Valenza, un tempo apprezzabile centro di commercio al minuto, sta attraversando un periodo di profondo cambiamento economico-sociale, con ripercussioni significative sul suo composto economico e sociale. I negozi tradizionali, un tempo cuore pulsante della vita cittadina, appaiono sempre più deserti, testimoniando un lento ma inesorabile declino. La loro capacità di attrarre clientela è in costante erosione, compromettendone il valore economico e rendendoli vulnerabili.

L’avvento dei grandi supermercati, spesso affiancati da personale proveniente da altre località, ha innescato una competizione spietata, stringendo in una morsa soffocante i piccoli negozi al dettaglio, un tempo pilastri dell’economia valenzana, che, disperati e senza speranza, perdono ogni giorno pezzi .

La diminuzione della ricchezza disponibile si riflette inevitabilmente sul potere d’acquisto dei valenzani, con conseguenze negative anche per lo shopping in generale, che subisce un rallentamento preoccupante. La contrazione dei consumi alimenta un circolo vizioso che penalizza ulteriormente i piccoli commercianti, già messi a dura prova dalla concorrenza della grande distribuzione.

È innegabile che l’espansione della grande distribuzione abbia profondamente sconvolto l’assetto commerciale della città. Le aperture festive dei grandi centri commerciali, che offrono un’ampia gamma di prodotti e servizi in orari estesi, rendono impossibile per il piccolo commercio competere ad armi pari. La flessibilità e la capacità di adattamento dei grandi colossi commerciali, uniti a strategie di marketing aggressive, attirano un numero sempre maggiore di consumatori, a discapito dei negozi tradizionali. Sebbene la possibilità di fare acquisti durante i giorni festivi possa apparire vantaggiosa per le tasche dei valenzani, soprattutto per chi ha poco tempo durante la settimana, per Valenza nel suo complesso le conseguenze sono meno positive. La concentrazione dei consumi nei grandi centri commerciali nei giorni di festa, in particolare presso catene come Esselunga e la Coop, priva il centro cittadino della sua vitalità, trasformandolo in un luogo spettrale e desolato.

Questi supermercati, aperti anche nei giorni festivi, svolgono indubbiamente un ruolo importante, offrendo un servizio essenziale a chi, impegnato durante la settimana, ha solo i giorni festivi per dedicarsi agli acquisti. Tuttavia, è fondamentale non dimenticare che i negozi, i bar e gli altri esercizi commerciali locali rappresentano molto più di semplici luoghi di scambio. Essi costituiscono l’essenza stessa di un luogo, il fulcro intorno al quale si sviluppa la vita sociale e culturale di una piccola città. La loro scomparsa impoverisce irrimediabilmente il terreno connettivo della comunità valenzana, alterandone l’identità e la memoria storica.

Nel 2009, il sistema economico di Valenza si articola attorno a una rete capillare di servizi e commercio locale. Quindici tabaccai offrono una pausa di chiacchiere e sigarette, cinque farmacie dispensano cura e consiglio, nove edicole forniscono notizie fresche di stampa, cinquantuno parrucchieri e diciotto estetiste si prendono cura dell’aspetto esteriore degli abitanti, cinquanta negozi alimentari offrono provviste fresche e sapori locali, e ben duecentosettantasei negozi non alimentari propongono una varietà di beni che soddisfano ogni genere di necessità e desiderio. Questo florido ecosistema commerciale, tuttavia, cela già i primi segni di una tempesta imminente.

In questa fase, si avverte una crescente diminuzione del reddito nelle aziende agricole, un settore che per lungo tempo è stato trainante per l’economia locale, a causa della costante discesa dei prezzi all’origine della produzione. I frutti della terra, un tempo fonte di orgoglio e prosperità, si svalutano, lasciando gli agricoltori in balia di un mercato sempre più spietato.

Parallelamente, gli investimenti in edilizia, motore di sviluppo e progresso, si sono fermati al palo della crisi. I cartelli sotto le case sfitte o in vendita sbiadiscono lentamente al sole, testimoni muti del forte rallentamento del mercato immobiliare che affligge Valenza. Ormai, i tanti che possiedono una casa non la considerano più un tesoro da custodire gelosamente, ma un fardello pesante da sopportare, e non metaforicamente.

La speranza di un guadagno facile e sicuro, legata alla proprietà immobiliare, si è infranta contro la dura realtà del mercato. Non possono più permettersi di mettere in vendita le loro case senza liquidarle sottocosto, rinunciando a una parte significativa del loro valore. E se, con fatica, riescono ad affittarle, eventualità difficile da concretare, sovente con il seguito di sfratti per morosità rilevanti, non riescono nemmeno a coprire i costi di gestione, tra tasse, manutenzione e spese impreviste. Si può definire queste operazioni come eterogenesi dei fini.

La situazione economica e sociale da codice rosso si riflette soprattutto sui giovani valenzani, che si sentono disorientati, impauriti e sfiduciati. Lo spettro della precarietà lavorativa aleggia sulle loro ambizioni e sui loro progetti di vita. «Studio, ma troverò lavoro?» si chiedono, con un nodo alla gola. «Riuscirò a farmi una famiglia, a costruire un futuro stabile nella mia terra?». Il dubbio li assale, giorno dopo giorno, «dovrò emigrare, abbandonare le mie radici per cercare fortuna altrove?», l’interrogativo non è da poco, perché mette in discussione l’identità stessa di una comunità.

A volte ingenui e pieni di speranza, a volte disincantati e rassegnati, questi giovani sono disposti al tutto, pronti a mettersi in gioco con coraggio e determinazione, ma si sentono condannati al niente, paralizzati da un sistema che sembra negare loro ogni opportunità. Il loro futuro, come quello di Valenza, resta avvolto in una nebbia di incertezza.

All’alba del nuovo millennio, nel 2001, le finanze comunali mostrano un quadro complesso, caratterizzato da luci e ombre. I trasferimenti statali, attestandosi a poco più di 3,6 miliardi di lire, rappresentano una parte significativa, ma non preponderante, delle entrate complessive. Le entrate comunali, infatti, si aggirano intorno ai 10 miliardi di lire, derivanti da un mosaico di imposte e trasferimenti, tra cui spiccano l’ICI (Imposta Comunale sugli Immobili), l’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) e i trasferimenti provenienti dalla Regione. Questa diversificazione delle fonti di finanziamento, sebbene potenzialmente vantaggiosa, richiede una gestione oculata e una costante attenzione all’equilibrio tra entrate e uscite. Sul fronte delle spese, il bilancio comunale è gravato da diverse voci di costo, alcune più prevedibili e necessarie, altre più controverse. Tra le prime, figurano le spese per il personale, inevitabili per garantire il funzionamento della macchina amministrativa e l’erogazione dei servizi pubblici; gli interessi passivi, derivanti dai debiti precedenti del Comune; e il conferimento dei rifiuti in discarica, un problema ambientale ed economico di crescente rilevanza.

L’analisi del bilancio comunale rivela inoltre l’esistenza di deficit significativi in alcuni settori specifici. La Casa di Riposo, con un deficit di 1,6 miliardi di lire, rappresenta una delle voci più critiche, seguita dagli asili (1,2 miliardi di lire), dalla biblioteca e dal Centro di cultura (circa 900 milioni di lire) e dai centri sportivi (oltre 700 milioni di lire). Questi deficit, se non adeguatamente affrontati, rischiano di compromettere la qualità dei servizi offerti alla cittadinanza e di aggravare ulteriormente la situazione finanziaria del Comune. Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalle partecipazioni comunali in municipalizzate e consorzi. Queste entità, concepite come «la terza via per fare impresa», si rivelano spesso inefficienti e dispendiose, «bruciando risorse» e «distribuendo posti di lavoro superflui». La loro gestione inefficiente alimenta il sospetto di sprechi di denaro pubblico, con il rischio di «prosciugare» le casse comunali.

La proliferazione di dipendenti, spesso assunti sulla base di criteri politici piuttosto che di merito, e la nomina di alcuni amministratori di parte, alimentano il malcontento e la sfiducia dei cittadini nei confronti dell’amministrazione comunale. La retorica dell’altruismo dietro tali nomine appare, agli occhi di molti, una copertura ipocrita per interessi di partito. Di fronte a questa situazione, si avverte la necessità di un cambiamento radicale, di un «coraggio» nel caravanserraglio della politica che a parole vuole affrontare le criticità e portare l’amministrazione comunale sulla via della trasparenza, dell’efficienza e del rispetto del denaro pubblico. Ma è anche necessario «vedere l’effetto che fa» ai politicanti «non frugali» una gestione più oculata e responsabile delle risorse comunali e non solo piangere miseria davanti alla cassa vuota secondo copione.

Un segnale di cambiamento, seppur parziale, si manifesta con la trasformazione della Casa di Riposo comunale nell’istituzione denominata «L’Uspidalì», a cui viene affidata la gestione della struttura. L’Uspidalì si trova a dover gestire una struttura complessa, che ospita più di cento persone, molte delle quali non autosufficienti. Nonostante le sfide, l’istituzione riesce a mantenere un certo equilibrio finanziario, arrivando nel 2012 a gestire un bilancio di circa 5 milioni di euro, pur dovendo assistere 129 persone non autosufficienti. Questo piccolo successo dimostra che, con una gestione efficiente e responsabile, è possibile migliorare la qualità dei servizi offerti alla cittadinanza e contenere i costi. Tuttavia, la strada da percorrere per risanare completamente le finanze comunali e ripristinare la fiducia dei cittadini è ancora lunga e difficile.

L’intero pacchetto azionario dell’Azienda Multiservizi Valenzana S.p.A. appartiene interamente al Comune. Nel panorama dei servizi locali, si registra nel 2002 la costituzione di Chiara Gaservizi S.p.A., un’entità preposta alla vendita del gas metano. Il nome di questa società «Chiara Gaservizi» solleva perplessità e viene considerato da alcuni forse non del tutto appropriato, vista la sua specifica funzione. Dopo poco, nel 2003, viene creata Valenza Reti, una società specificamente incaricata di custodire, gestire e mantenere efficienti le infrastrutture di rete, includendo non solo le reti gas, ma anche quelle fognarie e altri servizi essenziali per la comunità. Nonostante l’esistenza di queste diverse istituzioni e società, l’amministrazione comunale rimane saldamente al timone, esercitando un controllo diretto e significativo su tutte le operazioni e le decisioni strategiche: del resto è risaputo che chi fa da sé fa per tre. Questo ruolo di guida è giustificato dalla promessa di operare «per il bene dei cittadini», un obiettivo dichiarato che si traduce, in pratica, in una gestione dei servizi i cui costi ricadono inevitabilmente sugli stessi cittadini, che si trovano a sostenerne l’onere economico.

La formazione delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della politica. Con la riforma Moratti del 2003, nella scuola dell’infanzia viene consentita l’iscrizione di bambini che hanno dai 28 mesi in poi, contro i precedenti 36; nella scuola primaria viene introdotto lo studio dell’inglese e l’utilizzo del computer fin dal primo anno, viene abolito l’esame del quinto anno e, al suo posto, introdotta una valutazione biennale. Nel 2008 prende il via una nuova riforma e, tra i cambiamenti che fanno maggiormente scalpore, ci sono il ripristino del maestro unico, il voto in condotta e i voti in decimi.

La scuola secondaria di primo grado o scuola media inferiore “G. Pascoli” raggruppa, ormai, una vasta zona territoriale. Dopo aver assorbito la scuola media “A.Frank” e la scuola media “Giovanni XXIII” di San Salvatore, ha competenza su Bassignana, Pecetto, come prima. Nell’anno scolastico (2008­09) mantiene tutte le 32 classi, per un totale di 709 alunni suddivisi in questo modo: 282 nella sede di viale Oliva, 309 nella succursale A.Frank e 118 nella sezione associata di San Salvatore. Nel 2009-2010 la Pascoli ha 307 alunni in viale Oliva, 279 alla Frank e 111  a San Salvatore.

La situazione generale delle iscrizioni alle superiori viene completamente a capovolgersi nei confronti del passato: la quasi totalità dei giovani valenzani prosegue gli studi dopo la media inferiore (che sia una scelta o una via obbligata, è problematico dire), ma ci sono ancora alcuni juniores che non studiano, non lavorano e non stanno nemmeno cercando di farlo.

Nel Comune la popolazione straniera al 31 dicembre del 2008 è di 1.299 (nel 2007 era di 1.182 e nel 2006 di 1.075, quindi in costante crescita). Interpretando questi dati in forma poco lungimirante, pare voglia dire che fra non troppi anni la comunità valenzana potrebbe essere veramente multietnica, con differenze culturali molto grandi e con tanti «proletari senza patria» cui s’indirizzava molti anni fa il manifesto comunista di Marx ed Engels.

Nella circonvallazione Ovest, quasi a voler celare la sua presenza dietro una cortina di palazzi residenziali, fortunatamente, si erge la Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani non autosufficienti, un faro di speranza e di attenzione in un panorama spesso distratto. Questa felice eccezione, inaugurata con una certa solennità il 18 dicembre 2006, accoglie chi ha bisogno di cure costanti e di un ambiente protetto. La sua capienza, sessanta posti letto, rappresenta un’ancora per molte famiglie. Frutto dell’impegno e della visione della Fondazione Valenza Anziani, costituitasi nel lontano 1997, la struttura ha rappresentato un investimento rilevante per la comunità, con un costo finale che si aggira intorno ai 10 milioni di euro. Un investimento che, tuttavia, testimonia la volontà di prendersi cura dei propri anziani, spesso dimenticati.

In contrasto con questa ventata di novità, la rinascita del Teatro Sociale ha richiesto tempi ben più lunghi e risorse ingenti. Dopo una lunga e complessa opera di restauro, costellata da intoppi burocratici e da una spesa che ha superato le stime iniziali, si è finalmente rialzato il sipario nel 2007. Un evento accolto con gioia e trepidazione da una parte della cittadinanza, desiderosa di riappropriarsi di uno spazio culturale di grande valore storico, anche se per altri è stato un bastimento di soldi pubblici andati in fumo.

Ma non tutto risplende in questa Valenza che si specchia nel passato e si proietta nel futuro. Un persistente e fastidioso acufene, affine al rumore di fondo della piscina comunale chiusa temporaneamente nel 2003 per la depurazione dell’acqua e del locale. Negli anni che seguiranno, si cercherà in tutti i modi di riqualificare l’impianto, ma senza riuscirci; anche il modo di conduzione metterà più volte in difficoltà il Comune.

Dei tanti programmi e dei progetti abbozzati nel tempo, chissà quanti ne sono stati letti con reale interesse e quanti, invece, sono rimasti lettera morta, accumulando polvere negli archivi comunali. Che siano stati studiati approfonditamente o compresi nel loro complesso, resta un dubbio legittimo. Il refrain è sempre quello: molti politici pensano una cosa ne esprimono un’altra e ne realizzano un’altra ancora, oscillano superficialmente tra il pensiero liberale conservatore (che pare quasi un Ancien Régime) e il pensiero comunista di un tempo (tanto noi eravamo al di qua del Muro), passando per il socialismo e il cattolicesimo democratico (sempre meno splendenti).

Pare che le decisioni strategiche comunali siano ormai affidate agli spietati ma integerrimi funzionari, figure grigie e silenziose, depositarie del potere burocratico e spesso anche campioni d’inerzia e vittimismo, ben risarcito. Siamo passati dal «questo mi è dovuto al come è umano lei». Per i valenzani è sempre più facile diventare pessimisti.

Nel nuovo Millennio anche la «truppa professante», un tempo numerosa e influente, si è assottigliata. Valenza, come tante altre città italiane, sembra essere popolata da finti credenti, individui che ostentano una fede superficiale, spesso dettata da convenienze sociali piuttosto che da una profonda convinzione interiore, ma siamo ancora nel tempo in cui da qualche parte piange la statua della Madonna. Tuttavia, persino in alcuni vecchi atei, uomini e donne temprati da una vita di scetticismo e di razionalità, sorpresi e quasi stregati dalla vecchiaia, iniziano a sorgere dubbi religiosi più espliciti. Non credono, forse, ma sperano, o forse disperano, interrogandosi sulla possibilità che Dio esista davvero. Scherzi della senescenza? O forse una semplice anticipazione dell’«in capitulo mortis»? Probabilmente sono solo copie e omonimi di antenati ultrà misogini laici, uomini e donne che in vita si sono distinti per una visione del mondo rigidamente laica e spesso ostile al femminile. Con l’avanzare dell’età, si tende a perdere la misura con malcelata acidità, a non possedere più gli strumenti per conquistarsi il passaporto per l’aldilà, ammesso che esista un aldilà e che sia necessario un passaporto per accedervi.

La vecchiaia, con le sue incertezze e le sue paure, spesso ci mette di fronte ai nostri limiti e alle nostre fragilità, costringendoci a confrontarci con domande che avevamo sempre eluso. Il battesimo, un tempo sacramento fondante, si riduce anche a Valenza come una mera consuetudine, un gesto svuotato di significato, compiuto più per inerzia sociale che per vera convinzione religiosa. La fede, un tempo faro illuminante della città, si è affievolita fino a quasi spegnersi, lasciando spazio a un vuoto spirituale che si manifesta in ogni aspetto della vita moderna. Paradossalmente, in questi anni, solo i defunti sembrano ancora mantenere un legame tangibile con la religione, attraverso l’estrema unzione, un ultimo tentativo di aggrapparsi a una speranza trascendente. Persino i funerali, celebrazioni un tempo intrinsecamente legate alla fede cristiana, si svolgono in chiesa, un’abitudine più radicata nella tradizione che nella credenza. E ironicamente, molte di queste chiese valenzane, testimoni silenziose di un’epoca di fede, sono ormai destinate a essere dismesse, a cadere in disuso, a diventare relitti di un passato religioso in declino.

Le nostre tanto decantate «radici cristiane» appaiono ormai disseccate, prive di linfa vitale, ridotte a un moncherino sterile. Non vi sono più tronchi robusti a sorreggere la fede, rami frondosi a diffondere il suo messaggio, foglie rigogliose a testimoniare la sua vitalità.

Le nuove generazioni valenzane, immerse in un mondo sempre più secolarizzato e individualista, sembrano aver perso la bussola spirituale, non credendo più in nulla di trascendente. Il cristianesimo, un tempo forza trainante della civiltà occidentale, è in agonia, soffocato dall’indifferenza e dal materialismo dilagante. Anche la nostra città, un tempo baluardo della fede, è ormai segnata dall’ateismo o, peggio ancora, dal nichilismo militante (esito di una civiltà e di una religione perduta), una negazione attiva di qualsiasi valore o significato ultimo, sia col diavolo che con l’acquasanta.

Si assiste a una graduale ma inesorabile, rimozione di Dio dall’esistenza quotidiana, una cancellazione delle sue tracce dalla sfera pubblica e privata, facendo scivolare nel nulla le sue connotazioni sacrali, i suoi simboli, i suoi riti. Ci siamo rifugiati in un individualismo sterile, in una ricerca spasmodica del piacere effimero, dimenticando il valore della collettività, della solidarietà e della condivisione.

E, forse, questa deriva ci rende anche refrattari alle ruvide critiche di questo scritto, poiché vien comodo dare il difetto agli altri per stereotipi, addossare la colpa a qualcun altro, piuttosto che affrontare le nostre responsabilità e cercare di capire chi siamo. Preferiamo crogiolarci nella nostra apatia, ignorando il vuoto che ci divora dall’interno, ma con un’antica, endemica attitudine: lamentarsi.

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