Anni Settanta a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Negli albori degli anni Settanta, Valenza si presentava come un fulgido esempio di prosperità. Le strade brulicavano di automobili di grossa cilindrata, un segno tangibile di ricchezza ostentata, e l’abbigliamento dettava legge, con la moda inseguita fin nei minimi dettagli, quasi con ossessiva dedizione. Persino la classe operaia poteva godere di un tenore di vita ben al di sopra della media nazionale, un privilegio che contribuiva a creare un’aura di benessere diffuso.
In una cerchia ristretta, composta prevalentemente da individui benestanti, persisteva un certo senso di superiorità, un’alterigia sottile ma percepibile, alimentata dalla tacita convinzione di possedere un’intelligenza e un’abilità innate, superiori a quelle degli altri. Forse un ruolo predestinato che faceva un po’ ridere e un po’ pena, una sorta di investitura divina che li elevava al di sopra della massa, scegliendo l’apparenza come stile di vita.
Questa era l’immagine patinata, lo scenario idilliaco che la città proiettava all’esterno, un’istantanea di opulenza e successo con grandi previsioni, poi mai confermate dalla realtà. Ma le apparenze spesso ingannano.
Dietro la facciata luccicante si celava anche una realtà diversa, un lato oscuro che si preferiva ignorare e relegare ai margini della coscienza collettiva. Era la Valenza scomoda, quella che si svelava solo a chi era disposto a guardare, il rovescio della medaglia dorata che si cercava miseramente di nascondere sotto il tappeto del fasto e dell’abbondanza, soprattutto dai parrucconi di partito e di governo locale. Questa realtà alternativa era intessuta di povertà e decadenza: un’oggettività altrettanto semplice quanto scomoda.
Anche qui, come da altre parti, la disoccupazione mordeva, l’emarginazione sociale isolava parte della popolazione, e un’ondata di immigrati, gravati da famiglie numerose e da problemi economici pressanti, era giunta a Valenza, attratta dal miraggio dell’oro, da una promessa di redenzione e di benessere duraturo. La città si presentava ai loro occhi come una Mecca, un luogo dove finalmente avrebbero potuto annullare le angosce quotidiane legate alla sopravvivenza e garantire un futuro dignitoso ai propri cari.
Ma, come accade spesso con i miraggi, anche l’oro di Valenza si rivelerà una chimera, tradendo le speranze di molti. Le promesse di una vita migliore si infrangeranno contro le difficoltà concrete, e i progetti ambiziosi si incaglieranno di fronte a una realtà più complessa e spietata del previsto. La città, che da lontano scintillava come un tesoro, si dimostrerà, per molti, un luogo di disillusioni e amarezze, un crogiolo di aspettative disattese e l’immigrazione, che non era ancora un’istanza etica della sinistra, una classe sociale irritante per i locali.
A Valenza le vetrine dei negozi, però, scintillanti come scrigni di tesori, esponevano le ultime novità, oggetti del desiderio che ammiccavano a passanti rapiti dalla frenesia consumistica. Le molte fabbriche, pulsanti centri di produzione, alimentavano l’illusione di una prosperità diffusa. Questo sfarzo apparente, però, agiva come una cortina fumogena, un tentativo di distrarre l’attenzione da una realtà ben più cruda e complessa: un panorama costellato anche di piaghe di povertà e ristrettezze economiche. Alcuni lottavano ancora per la sopravvivenza, queste famiglie si arrangiavano con il poco che avevano accettando anche di essere umiliati, mentre la spaccatura tra chi possedeva e chi non possedeva si faceva sempre più profonda. Ma, come ci ha insegnato la peste manzoniana, la storia si ripete: il pubblico tende sempre a ignorare ciò che non lo tocca direttamente, preferendo crogiolarsi nell’illusione del benessere generalizzato con una vita a debito. Ed è, tuttavia, il potere economico che inesorabilmente modella quello sociale e quello politico che tutela certi diritti a giorni alterni e a secondo del tornaconto.
La generazione valenzana di questi anni, quella degli anni ’70, era profondamente diversa dai suoi predecessori. L’esasperato consumismo, alimentato dalla pubblicità martellante e dalla promessa di una felicità raggiungibile attraverso l’accumulo di beni materiali, aveva modificato radicalmente i rapporti interpersonali, la vita quotidiana e, soprattutto, gli antichi valori. Non ci si giudicava più per la propria onestà, la propria laboriosità o la propria umanità, ma dalla potenza della cilindrata dell’auto posseduta, dalla località esclusiva scelta per le vacanze, dallo spessore del portafogli. Questo status symbol, però, era sovente in bilico tra l’angoscia da paragone, la paura di non essere all’altezza delle aspettative sociali e una certa stupidità, un’incapacità di comprendere il vero valore delle cose. Una generazione educata ad amare se stessa, una parte della quale era funzionalmente quasi analfabeta, ma che nessuno indicava apertamente.
E mentre l’opulenza ostentata nascondeva certe miserie, un male oscuro serpeggiava tra le pieghe della società. Nel 1979, le statistiche ufficiali parlavano chiaro: a Valenza c’erano 30 tossicomani accertati, 350 fumatori di hashish e 150 consumatori che assumevano farmaci contenenti prodotti stupefacenti. Un declino lento e inesorabile, con troppe reticenze, una variante negativa che avrebbe abbattuto anche il creatore dell’ottimismo.
Il Piccolo – 8 Aprile 1972
Negli anni in questione, un’interessante dicotomia emergeva nella vita sociale di Valenza. Da un lato, si assisteva a un’ondata di libertà e spensieratezza tra i giovani, che sembravano abbracciare appieno le nuove possibilità e i cambiamenti culturali dell’epoca. Questa generazione, meno legata alle tradizioni e più aperta alle influenze esterne, viveva una vita sociale vibrante, fatta di incontri, eventi e una generale sensazione di ottimismo. Dall’altro lato, la popolazione adulta, e in particolare quella appartenente alla classe media, già mostrava segni di preoccupazione e timore di fronte all’incertezza del futuro. Le notizie di cronaca, sempre più frequenti e allarmanti, contribuivano ad alimentare un senso di insicurezza, spingendo molti a rinchiudersi nelle proprie abitazioni come a fortificarsi in un baluardo contro i pericoli esterni.
Per molti, la televisione iniziava a diventare la principale fonte di intrattenimento e compagnia, un rifugio sicuro dal mondo esterno. Le rare eccezioni a questa reclusione volontaria erano rappresentate da qualche uscita al cinema, brevi passeggiate diurne e, per i più appassionati, la tradizionale partita di calcio della domenica. Tuttavia, dopo le 21, le strade si svuotavano rapidamente (nulla di paragonabile al presente), lasciando spazio ad un silenzio inquietante e a rari passanti frettolosi.
In un contesto di crescente attenzione all’immagine e al benessere fisico, nascevano a Valenza altre palestre, luoghi che promuovevano un nuovo culto del corpo e della forma fisica. L’attività fisica, prima considerata un lusso o un passatempo, diventava ora una vera e propria necessità, un impegno da inserire a forza nella vorticosa agenda giornaliera, sempre più carica di impegni e responsabilità. La rapida proliferazione di queste strutture, con ben cinque nuove palestre aperte in pochi anni, testimoniava l’importanza crescente che i valenzani attribuivano alla cura di sé e al raggiungimento di un ideale estetico carico di vanità sempre più diffuso, dove veniva facile bearsi nell’egocentrismo con fierezza e amor proprio.
Parallelamente a questi cambiamenti sociali e culturali, si registrava un’impennata dei consumi, segno di una crescente prosperità economica generale. Valenza si distingueva per il suo elevato numero di utenze telefoniche (con un significativo aumento del 30% nel solo 1972, arrivando a contare 7.000 apparecchi) e per la diffusione delle automobili – 8.000 vetture di valenzani circolavano per le strade della città,
L’incremento del benessere economico si rifletteva anche nelle imposte versate dai valenzani: La città di Valenza, celebre per la sua tradizione orafa, si trovava ad affrontare una sfida complessa, il cui volto era rappresentato da una politica e una burocrazia che apparivano soffocanti. Molti orafi valenzani percepivano queste istituzioni non come un sostegno, ma come un ostacolo con il fine ultimo di drenare risorse attraverso un sistema intricato di imposte, tasse e multe. Questa pressione fiscale eccessiva e la complessità delle procedure amministrative creavano un clima di frustrazione e incertezza, che rischiava di demotivare anche i più appassionati artigiani, minando la loro voglia di investire tempo ed energie nel proprio lavoro.
Emblematico, a tale riguardo, questo elemento cruciale, spesso volutamente ignorato, che emergeva in questo panorama economico: se non ci fosse stato il vantaggio competitivo derivante dall’evasione fiscale – un fenomeno all’epoca non ancora stigmatizzato come un vero e proprio furto ai danni dello Stato, bensì guardato con una certa invidia e, a volte, addirittura con un malcelato rispetto – l’industria orafa valenzana, il pilastro dell’economia locale, si sarebbe schiantata al suolo. L’evasione, dunque, agiva come un ammortizzatore sociale ed economico, un palliativo che ritardava il collasso. Nonostante la narrazione a tinte luminose, esisteva una miriade di piccoli artigiani che, pur ricorrendo all’evasione, riuscivano a garantire a sé stessi un tenore di vita mediocre, e spesso caratterizzato da difficoltà economiche crescenti. La loro evasione tributaria e contributiva assumeva quasi i contorni di una «frode onesta», motivata dalla necessità di sopravvivenza di imprese di piccole dimensioni e con limitate capacità produttive. Un’evasione, quindi, percepita non tanto come un arricchimento illecito, quanto come una strategia disperata, quasi acrobatica, per rimanere: un cortocircuito tra teoria e realtà.
Il Piccolo – 15 Maggio 1976
Per comprendere appieno il contesto in cui operavano questi orafi, è utile analizzare i dati relativi al tessuto economico della città in un momento storico significativo, il 1971. In quell’anno, Valenza contava circa 23.000 abitanti (precisamente 23.061, secondo il censimento del 24 ottobre 1971), registrando un notevole incremento demografico del 24,4% rispetto al 1961. La forza lavoro locale era composta da 10.554 persone, distribuite nei diversi settori economici: 753 lavoratori erano impiegati in agricoltura, testimoniando la presenza di un’attività rurale seppur marginale; l’industria, cuore pulsante dell’economia valenzana, assorbiva la maggior parte della forza lavoro con ben 7.916 addetti, concentrati principalmente nel settore orafo; infine, il terziario, comprendente commercio, servizi e attività connesse, impiegava 1.855 persone, fornendo un supporto essenziale al settore manifatturiero.
Questa fotografia del 1971 ci mostra una Valenza dinamica, in piena espansione, la cui prosperità era fortemente legata alla vivacità del suo settore industriale, in particolare quello orafo, tuttavia, con certe previsioni mai confermate dalla realtà. Purtroppo, i prezzi nel settore orafo continuavano a salire, il continuo oscillare del prezzo del metallo giallo creava non pochi problemi, soprattutto per i rifornimenti: si comprava a venti col rischio di dover vendere a quindici.
La costruzione di un nuovo e oneroso polo orafo all’avanguardia (Coinor) proseguiva a pieno ritmo, concretizzandosi nella creazione di laboratori all’avanguardia, progettati per accogliere una forza lavoro di circa 2.500 specialisti del settore. La prima fase di questo ambizioso progetto, o realtà smaniosa e fittizia, prevedeva la consegna, nel 1984, di ben trentacinque laboratori, i quali avrebbero offerto spazi di lavoro moderni e funzionali per un contingente iniziale di circa 400 addetti. Questo primo nucleo avrebbe rappresentato un passo significativo verso la piena operatività del centro e l’inizio, immaginario, di una nuova era per l’oreficeria locale.
Parallelamente, all’interno dell’Associazione Orafa, si assisteva a un dinamico cambiamento ai vertici, una vera e propria scalata verso la leadership che finirà di essere più una complicazione che una risorsa. Dopo parecchi lustri di regno incontrastato da parte del demiurgo Luigi Illario, cadeva una sorta di paradigma che pareva inconvertibile, la presidenza passava nelle mani di Giampiero Ferraris, figura carismatica e decisa, descritto con un «piglio da condottiero». Ferraris, noto per la sua affiliazione politica di sinistra e insignito di un riconoscimento per i servizi resi tra il 1975 e il 1978, era però destinato a cedere il testimone al democristiano Paolo Staurino nel 1979. Questa transizione rappresentava una svolta significativa nella polarizzata governance dell’Associazione, riflettendo le complesse e pregiudiziali dinamiche politiche e le aspirazioni dei suoi membri in un mercato che non era più quello di una volta.
Il Piccolo – 16 Aprile 1977
L’A.O.V., l’associazione che rappresentava la stragrande maggioranza degli orafi valenzani (circa 700 su un migliaio di aziende presenti sul territorio), nel 1978, compiva un’azione pionieristica di fondamentale importanza: l’organizzazione della prima Mostra del Gioiello Valenzano. Questo evento, un vero e proprio banco di prova, ha rappresentato un primo, importante tentativo di intervenire attivamente nella commercializzazione dei prodotti, favorendo la promozione e la visibilità delle creazioni orafe valenzane. La mostra è stata, inoltre, un’imponente dimostrazione di forza e solidità finanziaria da parte di un’organizzazione che, sebbene a volte incline all’autocompiacimento e a lamentele eccessive, ha dimostrato una notevole capacità di agire autonomamente e di sostenere gli interessi dei propri associati mirando ai risultati. L’evento ha segnato un punto di svolta, aprendo nuove prospettive per il settore e consolidando l’importanza dell’A.O.V. nel panorama orafo internazionale.
Il decennio Settanta è stato difficile anche per il settore calzaturiero, su quel poco che ne restava ancora in piedi, con la fatica quotidiana di misurarsi con gli altri. Fabbriche dismesse, forza lavoro che non esisteva quasi più e figli di padroni che non volevano fare il lavoro calvinista-cartesiano dei loro padri. Ci sono stati ritardi che riguardavano soprattutto le innovazioni tecnologiche. Il costo della materia prima poi continuava ad aumentare mentre diminuiva la richiesta del mercato estero. Gli stranieri preferivano acquistare le scarpe dai mercati orientali a un prezzo decisamente inferiore al nostro. In quei paesi, a basso costo del lavoro, dove la manodopera costava pochissimo, così pure la materia prima, le aziende dettavano le condizioni globali di mercato. E Valenza con i suoi calzaturifici diventava l’emblema di una impressionante sconfitta. Eravamo ancora nel pieno della globalizzazione che coincideva con l’americanizzazione e l’occidentalizzazione del pianeta.
Questo scorcio metastorico descritto non è un biasimo né un elogio: è una constatazione personale. Temo però, come sempre, di averne scontentato tanti.