Storie del Trecento: Cardona e Bertrando a Valenza e Bassignana
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Nel dicembre del 1319 Luchino Visconti, figlio di Matteo I Magno, dopo aver preso Valenza sconfiggendo il guelfo Simone della Torre, abbatte il siniscalco Hugues de Baux (Ugone del Balzo) a Montecastello, mentre questi tentava di riprendere Alessandria e Valenza. Dopo sei mesi, e dopo che i Visconti hanno imperversato in tutta la zona, Valenza è occupata dal condottiero Raimondo di Cardona di Tarascona, gentiluomo aragonese già comandante al servizio di Roberto d’Angiò, nominato dal papa guascone Giovanni XXII suo siniscalco e suo vicario in Lombardia, il quale, da Valenza, dichiara guerra ai Visconti. Il condottiero aragonese è tanto insensato da rasentare la patologia (ogni volta che si muove compie disastri); espugna Montecastello, poi Alessandria, occupa Pontecurone, entra in Quargnento e fa prigionieri molti tedeschi che sono parimenti ripuliti, pretende taglie per il rilascio dei catturati e rovina campi coltivati, vigneti e piante da frutta. Nel quadro che viene fuori in quest’estesa baraonda d’ambizioni, bassezze e interessi personali, Valenza si è nuovamente liberata dei Visconti e dei Ghibellini, ma non dei nuovi occupanti guelfi, capitanati dal Cardona, probabilmente andando verso il peggio.
All’inizio del 1320, il nuovo papa Giovanni XXII, eletto nel 1316 – i pontefici restano in esilio ad Avignone dal 1309 al 1378, nella Francia succube dei Capetingi e devastata dalla guerra dei Cent’anni – si è ormai tolto i guanti e, deciso a spazzare via i ghibellini dall’Italia settentrionale, manda in Italia il cardinale Bertrand du Pouget (Poyet ?) o Bertrando del Poggetto. È l’angelo della pace (Pacis Angelus) del papa, un legato investito di poteri particolari per lottare contro gli eretici in Lombardia, per estirpare del tutto i ghibellini e per imporre a Milano la signoria di Roberto d’Angiò, cacciando i Visconti.
Il 16 dicembre 1321, il papa ordina all’arcivescovo di Milano esule Aicardo di Camodegia di aprire un nuovo processo di eresia contro Matteo Visconti e il figlio Galeazzo – il precedente procedimento canonico senza verdetto fu iniziato il 23 giugno 1320.
Nel febbraio del 1322, anche Bertrando del Poggetto proclama da Asti la crociata contro i Visconti, quindi aduna alcuni crociati, l’arcivescovo di Milano esule e quattro inquisitori nella chiesa di Santa Maria a Bergoglio (Alessandria) per attendere il chiamato in giudizio Matteo I Visconti, che, invece, in modo bellicoso, manda ad Alessandria l’esercito con il figlio Marco Visconti. Il cardinale Bertrando, scortato dal suo reggicoda Raimondo di Cardona, fugge a Valenza, dove ben presto giunge anche l’arcivescovo di Milano inseguito dai milanesi. Con loro, giungono a Valenza, che all’epoca conta quasi 3.000 abitanti, circa un migliaio di mercenari armati, oltre a un nutrito seguito di uomini di chiesa, una compagnia di padreterni persuasi di avere la ragione infusa in loro, mentre in tutta la Lombardia continuano le contese che coinvolgono guelfi (Partito del Popolo capitanato dai Torriani) e ghibellini, che fra di loro hanno vari membri della stessa famiglia Visconti (Matteo I Magno e i figli Marco e Galeazzo).
Ogni spazio libero di Valenza è affittato o espropriato per dare alloggio a un migliaio di questi spaventosi ospiti, non troppo graditi, seppur la presenza del legato del Papa diventi un’occasione per accrescere il prestigio e l’economia di Valenza. Il quadro che ne viene fuori dall’imputazione equivale a un fatale linciaggio, o, forse, a una grottesca pagliacciata. A Matteo si fanno vere e proprie accuse di miscredenza: avrebbe negato la resurrezione della carne, il paradiso, l’inferno, l’immortalità, la provvidenza divina e avrebbe anche invocato i demoni. Analogamente, l’accusa d’eresia è estesa a tutti i figli di Matteo e, con rigogliosi frutti della fantasia, ben 1.465 citazioni a comparire sono inviate agli uomini più vicini ai Visconti; gli stessi cittadini milanesi vengono minacciati dall’Inquisizione con la bolla pontificia del 23 gennaio 1322.
Nel marzo del 1322, l’arcivescovo Aicardo da Camodeia e gli inquisitori Barnaba, Pasio da Vedano, Giordano da Montecucco e Onesto da Pavia, tutti frati domenicani, riuniti a Valenza, ultima città tra Alessandria e Vercelli in mano ai guelfi, danno inizio ai nuovi procedimenti contro un primo staff di dignitari laici ed ecclesiastici; questi sono chiamati a deporre dinanzi al tribunale ecclesiastico nella chiesa di Santa Maria a Valenza.
Non deve stupire che il processo sia celebrato in un edificio sacro. Nel Medioevo, le navate e i transenni delle chiese sono utilizzati quali aule di tribunali e aule universitarie e sono ambienti in cui si riuniscono anche gli amministratori della città: il pensiero di assumere decisioni importanti al cospetto di Dio in un luogo reso sacro dà all’uomo medievale la consapevolezza che la scelta presa lì sia la più giusta che si possa prendere. Le testimonianze rilasciate durante il processo, giurate in presenza di Dio, non possono essere false: in caso contrario, ci si troverebbe nella condizione di essere nel peccato mortale.
La sentenza di condanna definitiva per eresia a Matteo viene stilata il 14 marzo 1322 ed è controfirmata dall’arcivescovo milanese esule, eletto dal papa, ma non riconosciuto dal Visconti. Un secondo gruppo di 203 ambrosiani, che crescono a vista d’occhio ingrassando le fila dei rinnegati, è citato il 2 aprile 1322. Altri 12 nobili di Milano si presentano a Valenza dinanzi agli inquisitori il 10 maggio successivo per chiedere una nuova proroga; essi, utilizzando ogni accorgimento per procrastinare la resa dei conti, confermano la loro devozione nei confronti della Chiesa e dichiarano urbi et orbi di essere disposti a fare tutto il possibile per persuadere i loro concittadini a scollarsi da Matteo I Visconti e ad accogliere la volontà del pontefice.
Purtroppo in questi tempi è molto problematico interpretare i comportamenti altrui e capire dove finisca la necessità e incominci il peccato, poiché si va all’inferno o in paradiso a seconda con chi stai. Ritenendo di essere vicino alla soluzione dello spinoso problema milanese, il cardinal legato, accoglie le richieste di molti imputati, che, come ad aver ricevuto la purificazione divina dei loro peccati, tornano esauditi a Milano. Nel frattempo, però, Matteo I Visconti si accorda con l’antimperatore Federico d’Asburgo, dal quale ottiene la conferma del titolo di vicario imperiale in Milano, rafforzando la sua posizione e quella del suo partito nei confronti dei suoi avversari interni ed esterni. La morte dello stesso Matteo (24 giugno 1322) e l’irrigidimento su posizioni di irremovibilità di suo figlio e successore Galeazzo I, anch’egli sostenuto da Federico d’Asburgo, fanno, tuttavia, precipitare la situazione. Le macchinazioni demenziali messe in piedi in questi tempi si rivelano un boomerang per tutti gli sciagurati autori. Infatti, dopo pochi giorni si dispiega una nuova battaglia nei pressi di Bassignana, un potente porto fluviale fortificato dei Visconti dal quale si può controllare e bloccare Valenza, tra le forze papali-angioine del Cardona e Marco Visconti, fratello di Galeazzo I nuovo signore di Milano.
Mentre il processo è in corso, con quasi tutti gli imputati in contumacia, Marco Visconti e il capitano di ventura aragonese Ramon de Cardona o Raimondo de Cardona, si fronteggiano a Bassignana per il controllo della rocca e, quindi, del Po. Nel 1321 il Cardona, insediato a Valenza, tra le varie sue sortite che hanno spogliato tutto l’alessandrino si era impadronito di Bassignana e, nell’ estate dell’anno 1322, esce da Valenza con 1500 cavalli e devasta nuovamente tutto l’alessandrino per dieci giorni; nell’intento di aprirsi la strada per Pavia e Milano, inizia con Bernardo di Monsolito un’operazione militare in grande stile contro la rocca viscontea di Borgofranco, ora Suardi, al di là del Po a Bassignana. Le forze militari di Marco Visconti e Gherardino Spinola, si muovono celermente contro il Cardona, ma i natanti condotti dallo Spinola non riescono a raggiungere la rocca. Il Cardona ha fatto scavare trincee tutte attorno a essa e ha fatto mettere delle grosse catene sul fiume affinché non vi entrino vettovaglie da Pavia o da Piacenza.
Il 6 luglio 1322 Visconti, al comando di 2.200 cavalli e 10.000 fanti, attacca i papalini inferiori di numero, con solo 1.200 cavalli e 2.000 fanti. La battaglia dura per diverse ore e il Visconti viene respinto e buttato più volte giù dal ponte sul Po coi suoi uomini, perdendo ben 300 cavalli contro 150 del nemico in due suoi attacchi di cavalleria. Alla fine, però, riesce a prevalere, catturando 600 cavalli e 400 fanti pontifici, oltre lo stesso Cardona, il quale, però, riesce a fuggire nella notte e a ripararsi a Valenza dal cardinale Bertrando del Poggetto, che, per il suo carattere non propriamente irenico, concerta immediatamente nuovi piani per la continuazione della guerra: una sorta di simil dogma.
Nell’intento di liberare le sue truppe rimaste assediate in Bassignana dai viscontei, il cardinale aderisce a una tregua e il luogo, unitamente al castello o rocca, sono presi in consegna dai commissari imperiali di Federico il Bello; ma si tratta di un enorme imbroglio, perché, ad ottobre, scaduti i termini della tregua, il borgo con la rocca sono consegnati a Marco Visconti nonostante le proteste angioine e del legato papale.
Ma, dopo pochi mesi, nel febbraio del 1323, il Cardona irrompe a Bassignana e vi resta per venti giorni; poco dopo, entra in Tortona con 500 cavalli e, il 2 aprile, prende Alessandria. Ai guelfi fuoriusciti da Tortona e da Pavia, sempre sovvenzionati dal papa avignonese, viene affidata Bassignana e, ben presto, questo comune e la sua popolazione esausta, attaccata con qualunque pretesto, vengono dotati di un capitano generale, un consiglio di savi e uno generale. Il paese resterà di fatto sotto le truppe angioine e pontificie fino al 1347.
Sicuramente Cardona, che appare soprattutto come rappresentante del papa e che è riuscito a bloccare l’avanzata dei Visconti, costantemente incline a guerreggianti uscite, ha una parte della sua intelligenza ingombrata da qualcosa, visto quanto di orrendo ha commesso, possiede, come tanti altri del tempo, un’ovvia indifferenza alla morte; i suoi interessi sono stati curati dal cardinal legato Bertrando del Poggetto, col quale il Cardona ha collaborato strettamente, facendo tappa a Valenza per diversi periodi. Invece, quel templare dell’annientamento e dalla dinamica intraprendenza, che è Bertrando – ha tolto più volte beni agli ordini religiosi e taglieggiato conventi – terminato il processo a Matteo e agli svariati personaggi legati ai Visconti abbandona Valenza con i suoi crociati guasconi e catalani, si stabilisce a Piacenza nel novembre del 1322 e, sempre al centro della scena, in seguito si impadronisce di diverse altre città, facendo sempre sostare da noi parte della sue truppe al comando del vivace Cardona. Bertrando del Poggetto ha innalzato al rango di Insigne Collegiata la chiesa di Santa Maria che ha ospitato il Tribunale inquisitorio, composta all’epoca da 10 canonici, un privilegio che normalmente spetta alle chiese cattedrali, il Duomo per Valenza.
Restava ugualmente alta l’angoscia di certi anfitrioni valenzani per l’eventualità che decidesse di rimanere o tornare ancora, vista l’aria che continuava a soffiare su questa città, possente frontiera di belligeranti e abituata da secoli a compiacere gli incontenibili invasori. Mai pacificato e dopo dotta inquisizione, Bertrando ordinerà perfino la bruciatura in pubblico dell’opera dantesca “De Monarchia”, un’altra perla che qualifica ad abundantiam questo personaggio avventuroso, mecenate, demagogo e populista, che compare anche nel famoso romanzo di Umberta Eco “Il nome della rosa” e nell’omonimo film del 1986.
Tra il 1322 e il 1332 è costruito il maestoso convento, sullo stesso terreno su cui, nel XIX secolo, verrà edificato il Teatro Sociale, e l’attuale Palazzo Pastore ne è verosimilmente un pezzo; nello stesso periodo, nell’attuale piazza Verdi viene costruita anche la chiesa gotica di San Francesco, accanto alla primitiva eretta nel 1239, che durerà 480 anni, venendo chiusa nel 1802.
E siccome la giustizia frequentemente è utilizzata come un randello per punire gli avversari e le sentenze vanno rispettate, specie quando a onorarle devono essere gli altri, vanificando quanto solennemente decretato, la dura sentenza promulgata a Valenza contro i milanesi sarà revocata nel 1341 da un altro papa, Benedetto XII, in cambio di 50.000 fiorini.
La storia è fatta di miserie e grandezze, di gloria e d’infamia.