Borgo: Secondino ricorda il tragico crollo della diga
Dopo la tragedia il rione oltre l'Orba non fu più lo stesso
Oggi l'88° anniverario: morirono 111 residenti nelle aree basse dell'Ovadese
OVADA – «Ho visto crollare il Borgo». Walter Secondino è uno degli ultimi testimoni diretti di quanto avvenne il 13 agosto del 1935 nel rione oltre l’Orba come conseguenza diretta del crollo della diga di Molare. Una tragedia immane che ha segnato profondamente l’Ovadese nell’immediato e che solo negli ultimi anni è riaffiorata alla memoria comune, orale e scritta, grazie a tanti contributi diversi che hanno proiettato un nuovo squarcio di luce sul tragico evento che provocò 111 vittime. «Gli anziani – racconta Secondino – provarono a rassicurare i più giovani. Nel 1915 l’area aveva vissuto qualcosa di simile. Ma sottovalutarono il fatto che vent’anni prima la diga non c’era ancora».
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Mattinata tragica
«Il mattino del 13 agosto 1935 – ricorda Secondino, collaboratore di lungo corso dell’Accademia Urbense – gli abitanti del Borgo di Ovada si svegliarono con le strade completamente allagate». Qualche anno fa, proprio per l’ente culturale che ha sede in piazza Cereseto, Secondino pubblicò “Il Borgo di Ovada prima del crollo della diga di Molare. «Quella vista generò da subito profonda preoccupazione e inquietudine. Sul ponte che collegava il Borgo a piazza Castello si generò subito un frenetico andirivieni. C’era chi avendo paura provava a scappare e arifugiarsi in città. Alcuni, in senso contrario volevano raggiungere i loro famigliari nel rione». Due persone ebbero il presentimento di una possibile tragedia. Furono Lorenzo Marchelli, il ciclista, e Cesare Torrielli, noto per la sua attività di marmista: i due spinsero molte persone lungo la strada delle cappellette, salvando di fatto molte vite umane. «Nel frattempo il lento innalzarsi del livello dell’acqua iniziò a provocare i primi danni alle abitazioni con le scale crollate, gli inquilini bloccati ai piani superiori. C’era chi si affacciava sul balcone per chiedere aiuto a chi era ancora sulla strada. Quest’ultimi però erano impossibilitati a intervenire. L’esplosione con forte boato della macchina del caffè nell’osteria di Rinaldo Agosto fece aumentare il caos».
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Ore nella disperazione
Il lago artificiale di Ortiglieto (Molare) era stato ottenuto sbarrando con una diga la valle del torrente Orba. L’impianto idroelettrico, di proprietà della società anonima Officine Elettriche Genovesi (O.E.G.), fu costruito dal 1917 al 1924 ed entrò in esercizio nel 1925. Il bacino di Ortiglieto aveva una lunghezza di circa 5 chilometri e una larghezza massima di 400 metri. La diga era alta 47 metri e lunga
200. Il disastro fu provocato dal crollo di uno sbarramento secondario, posto circa 500 metri a valle di quello principale. La diga secondaria del Bric Zerbino era alta 14 metri e lunga 110. «Dopo aver travolto le case di Monteggio – racconta Secondino – l’onda distruttrice andò a sbattere contro la Rocca delle Anime che la riversò sotto le arcate del ponte della Veneta che resistette all’urto. Qui avvenne uno strano fenomeno: l’acqua filtrata dalle due ultime arcate invertì il senso di marcia, tornò indietro andando a inondare la vicina regione Nascio. Nel frattempo la porzione più ingente della piena andò a infrangersi contro il retro del muraglione dello Sferisterio Marenco che la deviò proprio verso il Borgo».
Fu proprio il muraglione a salvare ciò che c’era in piazza Castello ma, di fatto condannare il rione oltre l’Orba. Il piano orizzontale, quello di transito venne sollevato dai piloni, trascinato per una decina di metri fino a disgregarsi in tanti pezzi. Le case del Borgo vennero investite una dietro l’altra e inghiottite. Una grossa nube di polvere, quasi impenetrabile, si alzò verso il cielo. Per molte persone non ci fu scampo. Dietro a piazza Castello, nel frattempo le acque dell’Orba si scontrarono con quello dello Stura. La barriera generata dal primo impedì l’afflusso del secondo che fu respinto all’indietro andando ad allargarsi nella zona dietro al cimitero. La maggior pressione si scaricò nell’area del ponte di Belforte che, seppur resistente, crollò. Sul fronte opposto la piena rallentò ma si allargò proseguendo verso l’Alessandrino.
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Memoria recuperata
«Il percorso della piena, dal ponte della Veneta – spiega Secondino – fu davvero una visione allucinante per un ragazzo di sette anni come il sottoscritto. In pochi minuti, davanti ai miei occhi non rimasero altro che le rovine di quello che fino a quel momento era stato un borgo popoloso. Il giorno dopo vivemmo un altro momento di panico intenso quando si diffuse la voce secondo la quale sarebbe crollata anche la diga principale. Un messo comunale in bicicletta percorse le vie cittadini in bicicletta richiamando l’attenzione con una trombetta. La gente terrorizzata raccolte le poche cose che si erano salvato, abbandonò una seconda volte le case, riempì le strade, attraversando di corsa il ponte sullo Stura per andare a rifugiarsi sulla collina di Tagliolo. Furono davvero ore di terrore e disperazione». Verso mezzogiorno arrivò Don Felice Beccaro, patrono di Ovada, che contribuì a far tornare tutti nelle loro case. Ma quelli successivi furono ancora giorni terribili di grande angoscia. A distanza di tanto tempo rimane l’eco di tutti i morti generati che per quella tragedia sia stato individuato un colpevole. «Ancora qualche anno fa – conclude Secondino – in piazza Castello era molto visibile il segno del livello dell’acqua raggiunto. Lo scorrere dell’acqua erose l’intonaco dei muri lasciando scoperti i mattoni. Prima che lo cancellassero lo feci notare in comune senza peraltro ottenere una risposta». Per molto tempo di questi fatti non si è parlato, un ricordo custodito da tanti ovadesi toccati direttamente negli affetti da quanto accaduto. «L’unico a dimostrarsi sensibile fu, durante il suo mandato, il sindaco Andrea Oddone che fece installare una lapide a ricordo delle vittime all’entrata del cimitero e ancora oggi visitabile».