Santaklaustrofobia
Si arrampica su per i tubi con la scioltezza di un’anguilla, malgrado la stazza. Quando lo stomaco si intoppa in qualche sinuosità, trattiene il fiato e si spinge verso l’alto. Maledice il giorno in cui il ragazzo se ne è andato a vivere da solo, traslocando in quel bilocale senza caminetto. È da allora che gli tocca passare dalle fogne per riuscire a introdursi in casa sua, nottetempo.
C’è quasi. Qualcosa di bianco fa capolino dal water. È un pompon, cucito sulla punta di qualcosa di rosso: un berretto a cono orlato di ermellino. Sotto l’orlo del cappello, sopra l’orlo della tazza spuntano due occhietti porcini che iniziano a sbirciare tutto intorno. Strizzati da palpebre pesanti come cotiche, brillano nel semibuio come due laser.
Due manone paffute fanno leva contro i bordi del sanitario per issare l’intero corpaccione fasciato dal vestito d’ordinanza, sempre più stretto di anno in anno, di abbuffata in abbuffata. Una volta estrattosi dal water, raddrizza la schiena con uno scrocchio che echeggia contro le piastrelle del bagno, accompagnato a un mormorio cavernoso che qualche malpensante potrebbe scambiare per una bestemmia.
Sgocciola sul tappetino in moquette ai piedi del lavandino mentre si osserva per qualche secondo dentro lo specchio: la barba lurida, il naso reso paonazzo dai troppi cicchetti, il berretto floscio e maleodorante. «Oh oh oh» prova a esclamare, ma è un suono rauco, privo di gioia quello che esce fuori dal buco dentato che spicca in mezzo alla barba incolta, simile al raschio che precede l’espettorazione.
Si muove a fatica dentro l’alloggio, tutto è sepolto nell’oscurità, fatta eccezione per la luce dell’insegna del motel di fronte che illumina a intermittenza un angolo del soffitto. Mentre avanza a tentoni rimpiange i tempi in cui ad accoglierlo era un tripudio di lucine appese a spirale intorno a un abete addobbato, nel centro del salotto, rischiarando a giorno l’intera stanza. Lo spigolo di un mobiletto contro cui impatta la rotula del suo ginocchio sinistro interrompe bruscamente il ricordo…
Annaspa dolorante, con le braccia tese in avanti, fino a scontrarsi con qualcosa di piatto e ruvido. Dev’essere la porta del frigo. La apre. La tenue illuminazione della lampadina si irradia per tutto il cucinino. Spia il contenuto del frigorifero con una cupidigia presto frustrata: una confezione di würstel già aperta, un culo di cotechino adagiato sul fondo di una tazza da colazione, un chinotto sgasato infilato nell’anta laterale, un mazzo di sedani appassiti, un salame dal preoccupante colorito marroncino.
Dove c’erano ricche imbandigioni ad attenderlo, biscotti al burro appena sfornati impiattati in vettovaglie di ceramica, vino cotto e bicchieri di latte caldo, ora ci sono i resti miserevoli della cena di un single trasandato.
Afferra il salame e lo addenta come fosse una banana, senza neanche sbucciarlo. Nel frattempo vaga per lo sbriga-cucina finché, dentro un mobiletto deserto, non rinviene una bottiglia di amaro alle erbe regalo di qualche vecchia zia, che si mette a trangugiare a ricchi sorsi, con la tristezza nello sguardo, alternandolo ai bocconi di insaccato.
Si asciuga la bocca con la manica della casacca rossa orlata di un bianco ingrigito. Lascia la porta del frigo aperta affinché gli illumini il cammino mentre si sposta verso la camera da letto, guidato dal monotono suono di un russamento adenoideo.
Eccolo lì, Paolino, sdraiato sulla pancia, stravaccato sopra un letto disfatto, che dorme, ancora vestito, un braccio che penzola giù dal materasso chiazzato, la faccia tumefatta da recenti bagordi, un dito di bava a scorrergli giù dalle labbra dischiuse.
Lo osserva per qualche minuto, in silenzio, con un’infinita tenerezza. Non mi importa se tu non credi più in me, io crederò sempre in te, Paolino! – pensa. Un groppo gli sale su per la gola. Fa fatica a distaccarsi da quella visione, anche se sa che è ora di andare. Rincula piano piano, per continuare a fissarlo amorevolmente sino all’ultimo. Ne arresta il movimento un tavolino su cui rischia di franare, se non ci sta attento.
Sopra il tavolino un laptop lasciato aperto dall’ultimo utilizzo. Infila una manona dentro la casacca, ne tira fuori un laptop all’apparenza tale e quale all’altro, ma in realtà con un processore e una memoria tre volte superiori, assemblato fresco fresco dalle manine dei suoi elfi.
Lo appoggia accanto al laptop vecchio, li connette con un cavetto, dà l’avvio al backup, al cui termine preleva il portatile malandato e se lo nasconde tra il pancione e la morbida stoffa rossa della giacca, sicuro che il destinatario non si accorgerà dello scambio. Questo ti faciliterà il lavoro – è il pensiero rivolto a Paolino che formula nella sua testa – Vedrai, troverai di meglio prima o poi…
Lancia un ultimo sguardo al trentenne accasciato sul letto, accenna un gesto di commiato. «Al prossimo anno!» sussurra. Le lacrime si confondono all’acqua dello sciacquone mentre sparisce da dove era venuto.