De Bello Mister Okay’s
Quella che era stata strombazzata come una guerra-lampo in realtà s’era morphata più che altro in una guerra-tempesta venusiana. Il rapido enlargemento del conflitto e il coinvolgimento sempre crescente di mezzi e unità militari, vittime civili, ripercussioni economico-finanziarie aveva stupito lui per primo – iniziatore di quell’invasione inconsulta, anche contro il parere dei collaboratori più stretti – dietro quella imperturbabile faccia da poker che gli consentiva la sua consueta espressione da mocassino in cuoio, e che già da un pezzo ormai se ne rimaneva rintanato dentro la stanza più impenetrabile e catafratta dell’intero p’l’zzo del Gremlin-O.
Den i noch messo là dentro. Put in. Aveva dasvidaniato da tempo parate, bagni di folla, proclami a cielo aperto, meeting con i pochi altri capi di stato che ancora lo friendzonassero. Preferiva starsene recluso là dentro a risikare con le sorti dei paesi confinanti, che si era gnamgnammato uno via l’altro come tanti ghiotti bonbon confezionati dentro una scatola regalo, sotto gli occhi titubanti e pavidi del resto della dunia.
Ora la situa sembrava buttare parecchio male. L’ultima delle nazioni satellite contro cui i suoi reggimenti avevano sferrato un attacco resisteva con inopinato cuordileone, loro in una proporzione di uno a cento, pugnale tra i denti, baionette al petto, contro la schiera di corazzate nemiche.
Bene bene non si sa che gli fosse preso. Un mattino qualsiasi sul finire del mesesecondo aveva fatto che vomitare una pletora di truppe d’assalto sullo staterello vicino al suo, adducendo pretesti niet plausibili. «Denazificheremo il loro governo!» aveva sturmundrangato, riferendosi curiosamente a un premier di origini ebraiche… C’era chi blablava gli fosse definiti vamente partito il boccino, chi opinava lo avesse fatto tanto per blastare per quanto goffamente le viciniori Forze Atlantiche, chi lo attribuiva a un picco di megalomania mista a mire espansionistiche dettate da un pessimo anacronismo mixate con una galoppante demenza senile.
La cosa certa è che il capo di stato in questione doveva essersi accorto piuttosto in fretta di aver pestato una grossa дерьмо. L’impresa bellica non era affatto andata come costui aveva cervellato. Aveva creduto sarebbe filato tutto karasciò. Aveva voluto mostrare i muscoli al mondo intero, aspettandosi che in risposta lo wowassero tutti quanti come se se lo fosse tirato fuori davanti a un gruppo di accondiscendenti putaschiave Thai.
Gli aveva detto male. L’opinione pubblica l’aveva da subito fingerato come la peggio canaglia in circolazione. Erano fioccate sanzioni sugli import-export e sul sistema di pagamento internazionale che avevano ridotto on knee l’economia della Росси́я. Nonostante tutto, lui non sembrava voler dechampare, come se ormai la guerra in atto si fosse morphata in una questione personale. La capitolazione sarebbe equivalsa alla confessione della propria impotentia coeundi in duniavisione.
Non era molto che Mister Okay era atterrato su questo pianeta, i primi tempi se ne stava piuttosto schiscio, puniva i crimini di strada perlopiù, salvava i civili da calamità naturali o incidenti, robe così, da bonaccione superforzuto parecchio diverso dal campione engagé che anni dopo avrebbe condizionato in maniera tanto invasiva la storia dell’umanità. Allora non pareva gli sficchiasse più di tanto ficcanasare tra quella feccia che llamano politica, indaffarato com’era a microondare malviventi comuni, congelare tsunami col suo alito refrigerante o bloccare asteroidi in piena corsa a pugnattoni.
Quella volta però, dopo aver supervisto guernicare, coventrizzare e dresdare per giorni ogni singolo angolo della piccola nazione occupata, rifillata di orfani, vedove e cadaveri ancora fumanti per le strade e dentro bunker di fortuna, doveva essere salito il nervoso anche al Paladino Volante.
Fatto sta che il bellicoso capo di stato si era intampato quel dì también dentro i suoi alloggi. La fifa che qualche emissario straniero o – easier again – qualche dissidente integro al entourage suo mismo cercassero di killarlo, lo aveva spinto a trincerarsi dietro i più sofisticati sistemi di protezione hi tech: l’ufficio, situato ai piani alti del p’l’zzo, era stato buildato con materiali antiproittile, antideformanti e antincendio di ultima generazione. La porta-blindo, composta da un blocco di grafene dello spessore di due metri, si poteva aprire solo dall’interno. Si buccinava per giunta che l’intero vano fosse stato rinforzato con metalloidi resistentissimi estratti dai monti Izvetoskovaya, nel punto in cui decenni prima si era schiantato un oggetto non identificato di grandi dimensioni, che alcuni avevano identificato con un mezzo di aviotrasporto dalle plausibili origini extraterrestri.
Il Presidente ci si era serrato dentro alle 6 antimeridiane in punto. Intorno alle 4 del pomeriggio i comandi verso le truppe dislocate al fronte, che sino ad allora avevano composto un incessante rosario di “shottate l’obiettivo X” o “droppate la scuola elementare Y”, si erano magicamente interrotti. Verso sera, poco dopo l’ora del crepuscolo, una certa inquietudine attaccò a formicolare tra i più stretti collaboratori del capintesta, che non aveva più dato segni di vita, da là dentro, né per il solito stuzzichino delle 5 a base di carne d’orso, né per i massaggini relax operati circadianamente da un manipolo di pettorute babushke.
Nel cuore della notte, dopo svariati tentativi a vuoto di mettercisi in contatto, fu fatta arrivare la chiave per l’apertura esterna, conservata, per questioni di sicurezza, in un bunker segreto buildato sotto la tundra siberiana, sorvegliato da una turnazione di militi armati. La scheda rettangolare plastificata era serbata sotto una campana adamantina imbullonata alla crosta terrestre.
C’era voluto un lungo protocollo, e la controfirma di undici alti dignitari, affinché il bedge strisciasse lungo la fessura che affiancava l’unico accesso alla stanza di comando.
Quando la porta-blindo fu finalmente sesamata, un horrorshow attendeva il segretario di stato: il corpo del Presidente giaceva sopra la poltrona tricottata completamente sbananato. Il suo derma era strippato in un cascame di filamenti che spazzolavano in terra, lasciandovi grasse tracce ematiche, mentre gli organi interni erano esposti quasi a seguito di una violenta esplosione. «È come se fosse stato cotto dall’interno» fu il primo referto verbalizzato dal medico curante del Presidente, visibilmente mumblemumbloso.
I giorni dopo qualche teste sostenne di aver smicciato una figura mantellata levitare all’altezza dell’ufficio del Primo Ministro, più o meno all’ora in cui le comunicazioni presidenziali erano slashate di colpo. Qualcuno si spinse ad affermare di aver sentito provenire da quella stessa presenza volante la seguente frase: «Tu sei il male… io sono la cura!». Di sicuro si sa solo che la mattina dopo Mister Okay celebrava il “cessate il fuoco” nella piazza principale di Київ, circondato da marmocchi festanti.
Quella che avete appena letto è una benaugurale ucronia. Mister Okay in realtà giungerà a salvare il mondo tra parecchi decenni. Se non volete farvi cogliere impreparati, cominciate a scaricarvi una delle sue avventure, appena uscita in versione digitale per la collana Atlantis dell’editore Delos Digital. Si intitola OKAYTOPIA: la trovate qui.