La Resistenza e il cinema: dagli anni Novanta ai giorni nostri
In questi anni matura un nuovo, più consapevole e attento approccio alle tematiche resistenziali che affonda le proprie radici nel cinema d’impegno sociale e civile di fine anni Sessanta e dell’intero decennio dei Settanta
CINEMA – «Ecco una cosa che ho capito: che molti vogliono ammazzare qualcun altro, ma io non capisco perché» (L’uomo che verrà)
È proprio a cavallo dei due decenni sospesi tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo che viene maturando, nel cinema, quel nuovo, più consapevole e attento approccio alle tematiche resistenziali che affonda le proprie radici nel cinema d’impegno sociale e civile di fine anni Sessanta e dell’intero decennio dei Settanta. A partire, nell’ambito della storiografia sulla Resistenza, dalla piccola, fondante rivoluzione copernicana del testo dello storico ed ex partigiano Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991), in cui per la prima volta viene sdoganata la definizione – mai osata in passato e mal accolta anche al momento della pubblicazione dello studio – di “guerra civile”, proposta sino a quel momento, con evidenti scopi devianti, solo dalle posizioni critiche di chiara ispirazione fascista.
È sul finire degli anni Novanta che – preceduto da un piccolo gruppo di pellicole che già si pongono, pur con alcuni limiti di fondo, nella direzione di un’indagine sul passato il più possibile scevra di retorica come di facili estremismi (vedi Il caso Martello di Guido Chiesa, 1991, Nemici d’infanzia di Luigi Magni, 1995, e Porzus di Renzo Martinelli, 1997) – esce nelle sale I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello (1964).
Con I piccoli maestri Luchetti inizia quell’operazione memoriale sulla Resistenza – condotta soprattutto attraverso il filtro dei ricordi della generazione di chi, all’epoca, era appena ventenne – che caratterizzerà negli anni a seguire la maggior parte delle pellicole sul tema. Il film racconta, in maniera abbastanza asciutta e incisiva, senza indulgere a retoriche e sentimentalismi ma neppure annullando totalmente l’espressione delle emozioni dei protagonisti della storia, il percorso “bellico” ed esistenziale di un gruppo di amici e studenti universitari vicentini (i “piccoli maestri” del titolo) che nell’autunno del 1943 decidono di unirsi alle file dei partigiani combattenti sull’altopiano di Asiago. A Gigi (Stefano Accorsi), Simonetta (Stefania Montorsi) e Enrico (Giorgio Pasotti), legati fra loro da vincoli sentimentali oltre che ideologici, si uniranno altri ragazzi, con il comune intento di «…resistere, con le parole, con l’intelligenza, ma anche con le armi…ne va della nostra libertà e dei nostri figli…l’Italia vera adesso siamo noi».
Nel corso di un lungo inverno sulle montagne, sino alla liberazione di Padova poco prima dell’arrivo delle forze alleate, sperimenteranno il vero volto della lotta di liberazione, il dolore, la morte, la fatica e il senso di inutilità, di scacco e di sbandamento nei confronti di una realtà feroce e troppo idealisticamente intesa.
Vero e proprio romanzo di formazione (analogamente al Partigiano Johnny di Chiesa), I piccoli maestri mette in luce, oltre alla confusione generale che albergava tra le diverse file della Resistenza (con il frequente passaggio dei giovani partigiani da un gruppo con una determinata coloritura politica a un altro, solo per ragioni di contingenza), l’onestà morale e intellettuale, il bisogno di coerenza e di eticità di una generazione che si è trovata, senza alcun preavviso ma con un enorme spinta all’azione, coinvolta in una vicenda complessa e multistratificata, ancora oggi difficile da collocare nell’alveo delle vicende di quel momento storico.
Per certi versi affine, nella modalità di sguardo, a I piccoli maestri ma, nello stesso tempo, con una propria, spiccata fisionomia (a dispetto della derivazione letteraria, piuttosto fedele, dal romanzo incompiuto e omonimo di Beppe Fenoglio, 1968, e dal precedente Primavera di bellezza, 1959), risulta anche Il partigiano Johnny, «un progetto fortemente desiderato e voluto» per stessa ammissione del regista Guido Chiesa, che prosegue: «con il passare del tempo il centro della mia attenzione si è spostato sulla “questione privata”, sull’odissea umana narrata da Fenoglio, ovvero sul suo faticoso e quotidiano farsi uomo nel tragico scenario della caduta del fascismo e della guerra».
Ci troviamo di fronte a un ulteriore racconto di formazione, quindi, modellato su di una stretta attinenza all’opera fenogliana (a cui fanno riferimento, ad esempio, i passaggi con le citazioni del protagonista in lingua inglese), dove ancora una volta si mettono in scena episodi, atmosfere e umori del periodo resistenziale attraverso la mediazione della letteratura e di un personaggio (Johnny, lo studente di letteratura inglese dietro cui si nasconde l’autore stesso, che con grande rigore morale porta avanti la propria scelta partigiana sino alle estreme conseguenze, a due soli mesi dalla fine del conflitto) intorno al quale tutto ruota.
Anche Johnny (uno Stefano Dionisi la cui recitazione quasi “in sordina” è estremamente efficace e matura) come i ragazzi de I piccoli maestri, è incerto, smarrito («parto in un mare di dubbi»), ma – a differenza dei primi – coltiva una maggiore consapevolezza di se stesso e di come andrà a finire («Era la sua fine, e prima o poi sarà anche la mia fine, altrimenti che devo pensare di me? È solo una questione di date»). La macchina da presa segue da vicino il suo percorso, anche geografico, nelle Langhe care a Fenoglio, nel profondo delle forre, nell’umidità nebbiosa e nel lucore della neve, con movimenti sconnessi, e una fotografia “sporca” giocata sui toni del grigio e del marrone.
Quello di Johnny è un itinerario di solitudine e di onestà intellettuale, specialmente se messo a confronto con l’opportunismo di alcuni suoi compagni di lotta: per la quasi totalità non è la fede politica che fa abbracciare la lotta armata («tu sei comunista? Io? Io sono solo contro i fascisti, il resto non mi interessa»), ma – come ne I piccoli maestri – la volontà di cambiare uno stato di cose ritenuto inaccettabile.
Le magagne e gli errori delle formazioni partigiane non vengono dissimulati da Chiesa che si mantiene, tuttavia – come Luchetti – a distanza da giudizi e interpretazioni retrospettive, limitandosi a documentare situazioni e stati d’animo. Somewhere over the rainbow, infine, le cui note accompagnano il lungo peregrinare invernale di Johnny attraverso un paesaggio collinare che pare quasi inglobarlo in sé, nelle proprie viscere, rimane l’unica concessione a un sogno di pacificazione che pare irrimediabilmente frangersi e irrigidirsi, subito dopo, nella fissità raggelante di un fermo immagine che consegna la vicenda umana del giovane partigiano alla storia collettiva dei nostri anni.
I nostri anni, significativamente, è anche il titolo cui Daniele Gaglianone affida l’emblematica sintesi dell’esperienza resistenziale che ha tramortito e sconvolto le vite dei due anziani amici (realmente) ex partigiani Alberto (Virgilio Biei) e Natalino (Piero Franzo): il quale fa filtrare, però, anche una semantica più allargata, in cui si concentra il messaggio del film.
«Sui monti ci sentivamo liberi, ci sentivamo una cosa sola con gli alberi, le pietre, i fiumi. Sembrava che tutto fosse lì solo per te. L’aria aveva un altro odore, ed è quello che dopo ti frega: basta respirare quell’aria una sola volta che ti sembra di soffocare per tutto il resto della vita. Non te lo dimentichi più».
Si soffoca, infatti, nella pellicola di Gaglianone: vittime e carnefici non riescono a respirare, nella medesima maniera. Soffoca Alberto, vagante e smarrito all’inizio della storia, tra stazione e binari, tra voci, volti, abbagli e ombre della propria memoria, sino all’incontro – nell’ospizio di cui è stralunato ospite – con Umberto.
Soffoca lo stesso Umberto, ex ufficiale fascista, piegato, con il respiro mozzo, su di una sedia a rotelle, e Natalino, che vive da lupo solitario sulle montagne piemontesi, dove ha combattuto da ragazzo. I tre, per uno di quegli strani scherzi del destino, si ritrovano insieme, per una sorta di ultimo rendez vous: e, alla fine, è la marea prepotente del ricordo che arriva a soffocare anche chi guarda.
I nostri anni, come un film surrealista, a guisa di un novello Un chien andalou, è un’opera onirica, astratta, che mescola frammenti, di sogni, di memorie, di visioni interiori e paesaggi reali, in un continuo andirivieni spaziale e temporale: una sorta di lungo flusso di coscienza che viene esteriorizzato da una fotografia (dell’ottimo Gherardo Gossi) in bianco e nero, sgranata e tremolante come nei vecchi filmini in super otto, da un montaggio non consequenziale, dalla sovrapposizione di voci, ansimi, rumori, da un doppiaggio fuori sincrono, in una saturazione totale dell’immagine, ai limiti della leggibilità.
La storia, amarissima, si chiude su dei sorrisi, quelli di Alberto e Natalino (quello dell’amico Silurino nella loro memoria), che sembrano farsi beffe di una società e di una storia che li ha rapidamente dimenticati: «Lo spirito della Resistenza! Oggi tutta questa storia interessa poco a noi che l’abbiamo vissuta, figuriamoci agli altri! Non è rimasto niente. Lapidi, corone rinsecchite, bei discorsi. Non frega più niente a nessuno…».
Il senso dell’operazione, non solo filmica, sta nella chiusa che leggiamo a I nostri anni: «I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia». La stessa considerazione proviene, a distanza di anni, dall’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, con il racconto della Grande Guerra (Torneranno i prati, 2014): «Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po’ tornerà l’erba sui prati…».
Contro la tentazione della rimozione e dell’oblio – come sottolinea con forza anche Margarethe Von Trotta nel suo Hannah Arendt (2014) – non vale soltanto la forza del ricordo, ma anche quella del pensiero, della riflessione su ciò che è stato. Quella che permea, fuor di retorica, il racconto dell’eccidio di Monte Sole in provincia di Bologna (la strage di Marzabotto, avvenuta tra il 28 settembre e il 5 ottobre 1944 ad opera dei nazi-fascisti sulle popolazioni civili), di cui Giorgio Diritti mostra i prodomi ne L’uomo che verrà («volevo far fare agli spettatori un viaggio nel 1944»).
La storia è vista (letteralmente, perché non parla dalla prematura morte di un fratellino) e narrata in voice over da Martina (Greta Zuccheri Montanari), una bambina di otto anni che vive, tra solitudine e momenti corali, il quotidiano trascorrere del tempo di una comunità contadina alle pendici del Monte Sole: le favole magiche e spaventose ascoltate d’inverno nella stalla, mentre le donne intrecciano fascine; la neve che cade di notte, dal cielo plumbeo; le rondini che tornano a percorrere il cielo in primavera; il giorno in cui si uccide il maiale e quello in cui si cuce il vestito per la prima comunione. È una comunità al femminile, quella di Martina, dove gran parte di quello che accade passa attraverso gli sguardi (e le parole, pronunciate in dialetto bolognese) della nonna, della mamma Lena (Maya Sansa), della zia Beniamina (Alba Rohrwacher), che Diritti filma con quel ritmo lento, quell’attenzione alle azioni minime e quel rispetto che l’esperienza dell’olmiana Ipotesi Cinema gli ha lasciato.
Scrive Martina in un tema: «I tedeschi hanno le armi e sparano contro il nemico, che non so chi è»; e così Armando, il papà di Martina, in risposta al padrone del podere che coltiva («È la Storia che è piena di guerre…»), sbotta: «Chi se ne frega della Storia e di chi la fa? Che storia è questa?». Diritti ritrae, come stando in punta di piedi su una soglia ma anche con grande eppure delicata partecipazione emotiva, l’inconsapevolezza: dei civili prima di tutto, e poi delle milizie partigiane, le cui azioni mettono in serio pericolo le vite degli abitanti della valle, e forse anche quella dei soldati semplici tedeschi, che Martina e suo padre trovano a giocare con delle uova in cucina, passando nei loro occhi quando gli viene intimato di far fuoco su donne e bambini.
Un’inconsapevolezza tragica, comune alle altre storie sulla Resistenza raccontate dalle pellicole dell’ultimo decennio prese in esame, cui fa il paio un’altra questione, evidenziata dalla battuta lapidaria di un comandante nazista: «È una questione di educazione: tutti noi siamo ciò che ci hanno insegnato ad essere».
Come sarà, che cosa diventerà, allora, “l’uomo che verrà”? Per capirlo e, nello stesso tempo, per continuare a mantenere vivo nella memoria ciò che è avvenuto, forse il miglior modo è quello di cullarlo e di prestargli ascolto, come fa Martina nell’ultima inquadratura del film.
Una selezione di pellicole resistenziali appartenenti al periodo citato è fruibile gratuitamente in streaming attraverso le principali piattaforme: in particolare, Il sangue dei vinti di Michele Soavi (2008) su YouTube; Una questione privata dei fratelli Taviani (2017) su RaiPlay.