Pasqua: il rito del canto alle uova
Un tuffo nel passato con Lucia Barba, che al cibo monferrino e alle tradizioni locali ha dedicato diversi studi, sulle abitudini degli ovadesi per la simbologia legata al periodo pasquale e per conoscere usanze ormai perdute legate ad esso.
Un tuffo nel passato con Lucia Barba, che al cibo monferrino e alle tradizioni locali ha dedicato diversi studi, sulle abitudini degli ovadesi per la simbologia legata al periodo pasquale e per conoscere usanze ormai perdute legate ad esso.
“Quando le campane venivano legate – prosegue Lucia Barba – i ragazzini venivano incaricati di andare nelle campagne a segnare il mezzogiorno (all’epoca gli orologi non esistevano e le campane del campanile erano le uniche a scandire il tempo); si utilizzava la ben nota raganella o “ sghinsèra”, uno strumento di legno che si faceva girare su una manovella producendo rumore. Altra usanza, come già accennato era, “cantare alle uova”. I giovani di sesso maschile andavano nella cascine fuori mano e cantavano accompagnati da flauti e fisarmoniche stornelli dialettali in cui si chiedevano uova e vino, ma anche in modo ironico se erano presenti in casa fanciulle ancora da maritare. Alla fine di questa “serenata contadina” gli abitanti della cascina regalavano i prodotti del loro lavoro per ringraziare i giovani. Un ruolo fondamentale in tutto questo rituale, non solo dal punto di vista religioso, ha sempre assunto la domenica delle palme. La tradizione ci parla però di alcune varianti rispetto ad oggi. “Durante questa giornata è sempre stata usanza, oltre alla benedizione dell’ulivo, presentare i nascituri e i bambini a cui veniva data una palma e intorno al polso un piccolo dolce a forma di ciambella: il canestrello pasquale doveva impedire che i bambini non si lagnassero”.