Parole e tradizioni del Natale degli ovadesi
I Natali passati degli ovadesi possono essere raccontati anche attraverso le parole, specie se in dialetto. Nella Vigilia di Natale scriveva nel 1878 il folclorista Giuseppe Ferraro di Carpeneto - si usa circondare un cerchio di legno di aranci, castagne, pomi, salami e si attacca al soffitto delle stalle
I Natali passati degli ovadesi possono essere raccontati anche attraverso le parole, specie se in dialetto. Nella Vigilia di Natale scriveva nel 1878 il folclorista Giuseppe Ferraro di Carpeneto - si usa circondare un cerchio di legno di aranci, castagne, pomi, salami e si attacca al soffitto delle stalle
OVADA – “A Natole a mangiuma ei bibein, ia fuossa duxe pucioia an tei vein”. I Natali passati degli ovadesi possono essere raccontati anche attraverso le parole, specie se in dialetto. La filastrocca, che deriva dalla tradizione popolare della città, inquadra bene la frugalità del Natale dei nostri concittadini negli anni immediatamente successivi all’uscita dalla seconda guerra mondiale. La focaccia dolce si gustava alla fine del pranzo del giorno di Natale, di norma ammorbidita nel bicchiere del moscato. La frugalità con la quale si approcciavano le feste all’epoca era il tratto tipico ereditato dalla cultura contadina a cavallo tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. “Nella Vigilia di Natale – scriveva nel 1878 il folclorista Giuseppe Ferraro di Carpeneto – si usa circondare un cerchio di legno di aranci, castagne, pomi, salami e si attacca al soffitto delle stalle”. Per lo stesso Ferraro, l’Orba era uno spartiacque, il punto dove le due anime di Ovada, quella squisitamente ligure e quella più influenzata dalla cultura piemontese, si incontravano.
Alla sinistra del torrente sorgevano i borghi monferrini; sull’opposta sponda, il dominio dei genovesi. E le usanze gastronomiche ne erano una delle manifestazioni più classiche. All’epoca, in attesa della nascita del Bambin Gesù, nella stalla si stava a vegliare fino tardi “filando la rocca e raccontando fole”. Di norma si piluccava l’uva verdera ormai appassita, fatta rinvenire in acqua tiepida, dolcissima. i grappoli si appendevano, nella stanza ritenuta più asciutta della casa, con i gancetti di fil di ferro agli spaghi di corda tesi da una parte all’altra del soffitto. Chi era più fortunato in quei frangenti poteva assaggiare i cosiddetti portugoi, le arance che all’epoca erano davvero poco diffuse anche perché più care. Per gli altri c’erano le vegette, cioè le castagne, e la frutta secca in genere: noci, nocciole e mandorle, fino ai fichi secchi infarinati che si potevano trovare al mercato. C’era un altro detto, ben radicato nelle menti di tutti gli ovadesi: ia sausissa di quela ca stissa salamin de porcu. Per infondere maggiore enfasi la tiritera era ripetuta più volte e con una certa ironia, tanto da farla sembrare quasi un canto liturgico. Era dedicato alla salsiccia, quella con la goccia e di qualità morbida che era ritenuta di gran lunga preferibile.