Vini di qualità, però l’alessandrino “è impreparato”
La Cia sta cominciando a tracciare un quadro più dettagliato dellandamento della vendemmia 2016. Un viaggio fra la zona del Gavi e del Dolcetto di Ovada è loccasione per scoprire differenti realtà aziendali, analoghe passioni per il vino, e differenze, anche profonde, fra territori e culture della promozione
La Cia sta cominciando a tracciare un quadro più dettagliato dell?andamento della vendemmia 2016. Un viaggio fra la zona del Gavi e del Dolcetto di Ovada è l?occasione per scoprire differenti realtà aziendali, analoghe passioni per il vino, e differenze, anche profonde, fra territori e culture della promozione
Una opportunità per approfondire anche filosofie di vita e di imprese (dal biologico al biodinamico) e scoprire le differenze, anche profonde, fra territori e culture della promozione. Ma c’è una considerazione che unisce produttori come Tenuta San Pietro di Tassarolo, La Ghibellina di Gavi, Cascina Boccaccio e Ca’ Bensi di Tagliolo: il territorio continua a non essere l’ambasciatore dei prodotti. Il mercato italiano viene giudicato “difficile e impreparato” da aziende. E la ristorazione della provincia, mediamente, non aiuta. La Tenuta San Pietro di Tassarolo e La Ghibellina di Gavi esportano gran parte della produzione che finisce nei ristoranti e nelle enoteche di Stati Uniti, Canada, Giappone, Sud Africa, Australia ed Europa. Di entrare nel mercato nazionale e locale si parla poco. Scarsa convinzione e poca conoscenza sono combinate a una immagine, eredità del passato, dell’uva Cortese che evidentemente continua a condizionare le scelte al dettaglio. Accanto a realtà aziendali innovative e capaci di lasciare alle spalle il ricorso di una uva di media qualità, c’è purtroppo un’area, tutto il Gaviese, sulla quale ha pesato la frammentazione dei produttori e il campanilismo esasperato che ha portato a un certo punto alla nascita di due consorzi di promozione e un associazionismo molto autoreferenziale e scarsamente incisivo.
Nell’Ovadese il quadro è in po’ diverso. Il mercato nazionale assorbe una quota maggioritaria, mentre la piccola dimensione delle aziende e una produzione che può passare dalle 250.000 bottiglie di un produttore di Gavi alle 30.000 bottiglie di uno ovadese condizionano le scelte di mercato. Quella che non manca è la ricerca di una qualità che rispetti la tradizione, puntando nello stesso tempo a scelte innovative anche del packaging e delle chiusure. Ma anche ad Ovada resta il problema di rilanciare il vino autoctono. Dopo anni di confronto, anche molto aspro, è poi arrivato ‘Ovada Docg’’. Il Consorzio riunisce oltre venti produttori e altrettanti Comuni e ha creato il ‘menu Ovada’, ispirato alla cucina del territorio affiancata ovviamente al Dolcetto. Il cambio di nome che lega il vino al territorio assicura identità e marchio facilmente riconoscibile anche all’estero. Però “continua a mancare la cultura da parte dei ristoratori che non sono nemmeno interessati a provare il nostro vino” commentano due produttori. Se la qualità dei vini alessandrini è mediamente in costante crescita, la cultura dell’accoglienza e della ristorazione deve fare ancora molti passi in avanti verso quella necessaria identificazione fra prodotti locali e territorio. Molti anni fa aveva fatto scalpore la scelta degli organizzatori di affiancare il Prosecco ai piatti tipici della zona della Val Borbera durante la presentazione di una stagione gastronomica. Il tempo è passato, ma l’eredità di quella mentalità è ancora dura da sradicare.