Alpinismo e pace: un ovadese in cima all’Ararat
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Diego Cartasegna - redazione@ovadaonline.net  
1 Settembre 2013
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Alpinismo e pace: un ovadese in cima all’Ararat

Gian Carlo Berchi è stato a capo della spedizione organizzata per i 150 anni del Cai. Il racconto della sua esperienza sul monte dell'arca di Noè

Gian Carlo Berchi è stato a capo della spedizione organizzata per i 150 anni del Cai. Il racconto della sua esperienza sul monte dell'arca di Noè

OVADA –  Sulle tracce dell’Arca di Noè, sulla vetta del Monte Ararat a 5.137 metri di altitudine, per un progetto voluto dal Cai, Club Alpino Italiano, per celebrare i suoi 150 anni. Il capo della spedizione è un iscritto alla sezione di Ovada, il rossiglionese Gian Carlo Berchi. La vetta è stata raggiunta alle 6.30 dello scorso 23 luglio al termine di cinque ore di cammino partite dal campo 2 a quota 4.200 e al culmine di una manciata di giorni utili al gruppo per acclimatarsi, tra 2.000 metri e la quota del campo 2, essere pronto a affrontare freddo e altitudine. “Ogni dettaglio – racconta Berchi – è stato programmato, dalla preparazione che abbiamo portato avanti in Italia, in particolare sulle Dolomiti, ai test sulla saturazione e sulla frequenza cardiaca svolti sul posto, nei giorni precedenti all’ascesa, con i medici che facevano parte della nostra spedizione”. 

L’Ararat è in Anatolia, nella parte più orientale della Turchia, la biblica montagna dell’arca Noè. Nella definizione del progetto, la scelta di questa meta implica un richiamo ad una cultura di pace e tolleranza poiché le pendici dell’Ararat sono state teatro di uno dei drammi più terribili del XX secolo: il contrasto tra le etnie turca e armena. La spedizione è il momento topico di un progetto più ampio con la finalità di proporre un modello di alpinismo che metta in primo piano i valori educativi, umani e culturali, includendo comunque la componente alpinistica, finalizzata alla sicurezza nella progressione sul terreno.  “La base – prosegue Berchi – l’abbiamo stabilita a a Dogubayazit, una cittadina a circa 2000 metri di quota vicina al confine tra la Turchia, l’Iran, l’Armenia e l’Azerbaijan e con una salita di 1200 metri di dislivello arriviamo al campo 1, base della salita all’Ararat”. Partenza dall’Italia il 17 luglio.

“La nostra via di salita si è sviluppata sul versante sud della montagna. Sul percorso troviamo la famiglia di Burhan: si tratta di un tipico attendamento di pastori curdi che con grande ospitalità ci offre tè, “cay” in lingua locale, riso, carne di agnello e ottimo pane armeno, chiamato “lavash”.”

L’ascesa vera e proprio parte alle 00.30 del 23 luglio. “Si tratta di un’impegnativa salita su sfasciumi tra lingue di neve e ghiaccio. Fa freddo e qualcuno accusa qualche piccolo malessere, subito gestito e recuperato con il supporto dei medici. Le nuvole sono basse, ma non c’è rischio neve. Il vento aumenta di intensità mano a mano che saliamo e, quando il terreno richiede di calzare i ramponi, indossiamo anche la giacca pesante ed i guanti da alta quota. Qui si vede il risultato della buona preparazione effettuata sulle Alpi: siamo tutti concentrati, veloci e precisi nell’indossare ed usare i materiali. Affrontiamo quindi l’ultima rampa di ghiaccio che ci porterà sulla cima. A 200 metri dalla vetta il vento si fa ancora più forte, ma siamo più determinati che mai.  Eccoci in vista della bandiera di vetta: è ghiacciata, stimiamo una temperatura intorno ai -15 gradi”.

Anche la discesa risulterà faticosa per il tipo di terreno. “Al campo 1 le donne sono intente a fare il bucato o lavorare la lana sui prati. Bambini di ogni età ci circondano per vendere sciarpe. Ci rendiamo conto di come queste persone conducano una vita in grande povertà.  Abbiamo  lasciato materiale e medicinali e, con il supporto della nostra guida con cui siamo ancora in contatto, ci ripromettiamo di raccogliere ed inviare loro indumenti per l’inverno”.

 

 

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