“Omicidio volontario”: condanna “storica” per Beti
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“Omicidio volontario”: condanna “storica” per Beti

Il giudice accoglie la tesi del Pm Riccado Ghio e riconosce la pena di 21 anni e 4 mesi di carcere per l'imprenditore macedone che, alla guida di un Suv, ha provocato la morte di quattro ragazzi francesi. “andava come un pazzo in contromano, con indifferenza”, ha sostenuto l'accusa. “Non era cosciente”, ha sostenuto la difesa che ricorrerà in appello. “Per noi è una sentenza storica”, dicono i familiari delle vittime

Il giudice accoglie la tesi del Pm Riccado Ghio e riconosce la pena di 21 anni e 4 mesi di carcere per l'imprenditore macedone che, alla guida di un Suv, ha provocato la morte di quattro ragazzi francesi. ?andava come un pazzo in contromano, con indifferenza?, ha sostenuto l'accusa. ?Non era cosciente?, ha sostenuto la difesa che ricorrerà in appello. ?Per noi è una sentenza storica?, dicono i familiari delle vittime

Ilir Beti dovrà scontare in carcere ventun anni e quatto mesi di pena per aver provocato la morte di quattro ragazzi francesi, la notte del 13 agosto, percorrendo venti chilometri circa in contromano, lungo la A 26, tra il casello di Alessandria Sud e Ovada. Il giudice per l’udienza preliminare, Enrica Bertolotto, ha accolto la tesi del pubblico ministero Riccardo Ghio: omicidio volontario con dolo.
“Ci son elementi tali che ci fanno escludere la colpa. Non c’è stata da parte di Beti, alla guida del suo Suv, una condotta tale che facesse pensare al tentativo di evitare l’impatto – ha sostenuto Ghio – Andava come un treno, alla guida di un mezzo potente, indifferente a quel che poteva accadere, senza alcuna cautela”.
“Una requisitoria straordinaria, che chiuso tutte le porte alla possibilità di un giudizio diverso”, ha detto uno degli avvocati di parte civile, intervenuti in aula subito dopo Ghio.
Beti era lì, nell’aula del tribunale del palazzo di giustizia, ad ascoltare le accuse del pubblico ministero, degli avvocati di parte civile e la rabbia dei parenti della vittime: “assassino”, l’appellativo più frequente. Per tutta l’udienza “non ha guardato in faccia nessuno – dice Christine Lorrine, combattiva mamma di Vincent, una delle vittime – si nascondeva il volto tra le mani, come se piangesse. Ma non ci abbiamo creduto, era tutta una messa in scena”.
Secondo l’avvocato difensore, Mario Boccassi, “Beti quella notte era ubriaco di stanchezza e di alcool. Si era alzato alle 5 per andare sui cantieri dove lavora ed aveva trascorso la serata ad Arenzano, aveva bevuto”. Quella che Ghio ha definito “indifferenza” per Bocassi era “incoscienza”. “Beti non era cosciente di ciò che stava facendo. E quini non c’è volontarietà”. Secondo il difensore “c’è la colpa,a anche grave, ma non la volontarietà di causare la morte. Nessuno scientemente si butterebbe in autostrada contromano, mettendo a rischio la sua stessa incolumità”.
In quel caso, l’imputato, avrebbe potuto arrivare alla pena di 15 anni, la massima prevista per l’omicidio colposo. Ma per il giudice c’è stato l’elemento del dolo. E la pena è salita a 21 e 4 mesi: 20 per l’omicidio, un anno e 4 mesi per le pene accessoria, le lesioni all’unico superstite dell’incidente , guida in stato d’ebrezza e porto d’armi abusivo.
Boccassi non crede alla “tesi della borsetta” secondo la quale Beti avrebbe invertito il senso di marcia per recuperare una borsetta lanciata dal finestrino poso prima, dopo una lite in auto con la donna che lo accompagnava. Se ne riparlerà probabilmente in sede di appello, perché la difesa ha già detto di avere intenzione di impugnare la sentenza di primo grado.
21 anni e 4 mesi, non 15. Poca differenza, forse. Conta di più il significato, le motivazioni alla base di una sentenza (saranno depositate entro 90 giorni) che “farà storia”.
“Per noi 200 anni o 20 non fanno differenza. Niente ci restituirà i nostri figli”, piange il padre di uno dei ragazzi dopo la lettura della sentenza. Un pianto liberatorio, che scioglie la tensione di una lunga giornata iniziata alle 8,30 con un presidio davanti al tribunale. I familiari delle vittime erano arrivati i pullman dalla Francia. Lo avevano anticipato alla prima udienza ed hanno tenuto fede al proposito. Volevano vedere in faccia “l’assassino” e volevano tornare a chiedere, attraverso l’associazione “Un Chemin pour demain”, nata per volontà dei parenti dei giovani deceduti, il riconoscimento del reato di omicidio stradale. Insieme all’associazione francese anche il Sindacato autonomo di polizia Sulpm, l’associazione Italiana Familiari vittime della strada e tutti quelli che, anche a livello locale, si son mobilitati per la raccolta firme da presentare all’Unione Europea. “Questa sentenza – dice Christine Lorrine, a udienza chiusa – è un primo passo in quella direzione. Ma il cammino è ancora lungo e noi non ci fermeremo”.
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