Parere di enologo: Dolcetto e Ovada un binomio da valorizzare
Parla Vincenzo Munì , albese trapiantato per ragioni professionali sulle nostre colline: "I produttori devono consorziarsi"
Parla Vincenzo Munì , albese trapiantato per ragioni professionali sulle nostre colline: "I produttori devono consorziarsi"
Quali sono le caratteristiche specifiche delle vigne coltivate nell’ovadese e in che modo caratterizzano il prodotto finale?
«Due elementi importanti ci distinguono: il vento dal mare, che soffia in modo costante da marzo a luglio, e la scarsa densità di sfruttamento del terreno, sia dal punto di vista urbano che agricolo. Quest’ultimo aspetto apre allo sviluppo della produzione bio perché storicamente l’utilizzo della chimica è stato inferiore rispetto ad altre realtà. E rappresenta una carta vincente».
Con quale biglietto da visita si presenta il nostro Dolcetto?
«È un vino che si esprime molto bene fin da giovane, ma penso che dia il meglio di se sul lungo periodo. Con il mio collega e amico Franco Tinto [patriarca riconosciuto del Dolcetto e direttore della Cantina Tre Castelli negli anni d’oro; ndr] abbiamo degustato il Dolcetto di diverse annate, alcune molto vecchie, prodotte dalla stessa azienda: il risultato è sempre stato sorprendente».
E che immagine dà il tessuto produttivo di sé?
«Senz’altro forte e positiva, ma quella che si avverte non è, secondo me, pari allo sforzo. Per l’Ovada Docg è necessario arrivare a fare quello che a Gavi, a Barolo, a Barbaresco, senza andare tanto distante, hanno saputo fare molto bene: svincolarci dal vitigno privilegiando il nome del territorio. Bisogna cercare di lavorare tutti insieme per muoverci verso un progetto comune di promozione, spingendoci oltre e guardando lontano, per poi cominciare ad agire vicino. Dall’altra parte la cura della qualità dovrebbe essere di rigore, per non rendere vane le risorse impegnate».
Quali sono i mercati che al giorno d’oggi offrono maggiori possibilità?
«Sicuramente Nord Europa dove la stabilità economica sembra tenere. America e Giappone hanno ridotto il consumo. Di un certo interesse si sta dimostrando il Brasile, ma l’attenzione attualmente è tutta rivolta alla Cina. Lo si vende in grandi quantità a grandi aziende, quali possono essere le banche, le imprese di costruzioni che poi lo regalano come segnale di solidità. In Cina prima c’è il vino francese, poi il vino australiano, quindi il vino cileno. Soltanto dopo arriva il vino Italiano».
E l’Italia?
«Il mercato italiano è in contrazione forte. Il gusto intanto si evolve verso gusti più semplici, più sobri, verso vini freschi, fruttati, giovani».