Fausto Paravidino, dietro le quinte
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Fausto Paravidino, dietro le quinte

Incontriamo l’attore, autore e regista ovadese durante le prove di “Il diario di Mariapia” - il 10 dicembre in scena a Valenza - e ci racconta del suo lavoro ma anche del sistema teatrale italiano, dell’avanguardia, della sua terra

Incontriamo l’attore, autore e regista ovadese durante le prove di “Il diario di Mariapia” - il 10 dicembre in scena a Valenza - e ci racconta del suo lavoro ma anche del sistema teatrale italiano, dell’avanguardia, della sua terra

“Ingresso artisti” mi dice Lisa – assistente di Fausto – al telefono. Che emozione! E’ la prima volta che passo dietro le quinte!
Mi affaccio alla sala in silenzio e in punta di piedi raggiungo una delle poltrone della platea. Fausto sta lavorando con i tecnici alle musiche e alle luci di scena per lo spettacolo “Il diario di Mariapia” che debutterà come prima italiana sabato 10 dicembre al Teatro Sociale di Valenza.
Arrivano Iris Fusetti – sua compagna nella vita oltre che sul palcoscenico – e Monica Samassa – che proprio oggi compie gli anni – con i viveri e cerco di passare inosservata per dare modo alla compagnia di godersi almeno questa brevissima pausa pranzo… mi sento un’intrusa.
Panino con il prosciutto cotto finito usciamo per un caffè.
“Ti faccio prendere almeno ancora il caffè in santa pace” – gli dico.
“Ok! Però nella pausa sigaretta via alle domande!” – lui sorridente.

Lavorate sodo eh?!
Gli attori fanno 7 ore di prova – anche perché oltre una certa ora, per via della stanchezza, il lavoro diventa inutile considerato che non si tratta di un’attività meccanica. I tecnici, invece, faccio finta di essere capace e li faccio lavorare 12 ore.

Chi ha lavorato con te in “Texas” – il tuo debutto sul grande schermo – ti definisce preciso ma anche molto rilassato nella gestione del set…
Non mi ritengo uno stronzo. Cerco di lavorare insieme alle persone in maniera morbida e via dicendo, però c’è un solo modo di fare le cose, quello giusto!
Il “vabè” in un contesto di lavoro serio non è contemplabile, a maggior ragione in un contesto di lavoro artistico, dove se fai entrare l’idea di “vabè”, arriva fino a in fondo. Una macchina, ad esempio, deve rispondere ad esigenze di utilità, in uno spettacolo, invece, non essendoci la necessità di dare un riscontro a livello di funzionamento “meccanico”, il primo “vabè” se li porta appresso tutti.

Ma parliamo di questo spettacolo “Il diario di Mariapia”, che andrà in scena per la prima volta in Italia, sabato 10 dicembre al Teatro Sociale di Valenza…
Lo spettacolo nasce da due componenti fondamentali: da un lato il mio lavoro – il mio incessante e inesauribile desiderio di fare teatro e avere a che fare con storie forti – a volte le invento e a volte semplicemente le incoccio. Quando c’è della materia che mi sembra interessante, la mia mente si attiva e non riesco a frenare la volontà di fare teatro e di mettermi a lavorare per capire qual è il modo migliore per farlo.
Dall’altro lato c’è l’esperienza forte dell’avere a che fare la malattia. Questo aspetto nasce dall’atro autore del testo che è questa Mariapia che ha scritto questo diario, che non è da ricondurre a una dimensione privata. Oltre ad essere un lavoro personale era un lavoro da medico – lei era un medico -, scritto e dettato, in modo da poter essere utile agli altri. Un testo, dunque, che nasce dalla volontà di condividere con gli altri l’iter della malattia, dal’’intento preciso di raccontare questa storia perché avesse un’utilità per gli altri. Non un diario privato!
E non c’è niente di privato nemmeno nel mio spettacolo perché non ho minimamente intenzione di ammorbare il pubblico con i fatti miei! Avrei potuto darlo alle stampe, ma per le competenze che ho è più “facile” per me renderne un’opera teatrale.
E’ uno spettacolo teatrale, un NORMALE spettacolo teatrale, che vorrei vivesse il meno possibile del ricatto morale del fatto “oh, lui e sua mamma, ecc”, perché è una cosa che non mi interessa, a me interessa che la gente vada a teatro.
Quando l’abbiamo messo in scena a Stoccolma, dove ovviamente nessuno mi conosceva, è piaciuto molto e tante persone sono venute a chiedermi se questa Mariapia esisteva davvero o se me l’ero in qualche modo inventata. Questo è il tipo di reazione che mi piacerebbe di più, quella ideale.
Non un “grande omaggio a sua madre”… come ha già scritto qualcuno.

Hai lavorato molto all’esterno e in un intervista dici “nel resto d’Europa non sono under un cazzo, sono uno che fa teatro e basta”
All’estero non esistono paternalismi, se il tuo lavoro fa schifo, fa schifo che tu sia grande o che sia piccolo, se il tuo lavoro funziona, il tuo lavoro funziona che tu sia grande o piccolo. Come lavoratore – che sta sul pezzo – ho lavorato soltanto in Gran Bretagna, in Francia e in Svezia, come autore in tanti paesi e posso dire che all’estero c’è un clima teatrale che trovo un po’ più sano.

Per tornare a guardare all’Italia… So che ha seguito in prima persona la questione del Teatro Valle occupato di Roma
Teatro Valle: sì, mi sono occupato di occuparlo.

In questo frangente dici: “La nostra disperazione ci rende avanguardia”
In Italia siamo costretti alla messa in campo di una creatività straordinaria che va a sopperire la mancanza di strutture. Non c’è un mainstream consolidato, hai una possibilità su 1000 di riuscire a fare il tuo lavoro, invece che il 10% come sarebbe consentito a qualunque lavoratore. Quindi devi aguzzare l’ingegno continuamente.
Questo ha – com’è ovvio – degli inconvenienti. In primo luogo c’è una mancanza di professionalizzazione. Ad esempio, la maggior parte dei registi sono anche organizzatori e spesso diventa più forte l’essere organizzatore dell’essere regista. Questo fa sì che io diventi regista non per meriti artistici ma per meriti politici e questo è ciò che diffusamente accade nel sistema dei teatri stabili, o anche nelle piccole realtà. Chi fa il regista adesso spesso è tale perché è stato abbastanza bravo nel trovare i soldi, le conoscenze, le persone, per mettere in scena lo spettacolo. In un sistema che funziona ognuno ha la propria professione, il produttore fa la parte del produttore – va a vedere gli spettacoli che ci sono, fa la conoscenza dei registi che esistono e affida dei lavori a un regista -, e il regista va a parlare ad un produttore – che non è se stesso – e gli propone un progetto. Peggiore è la situazione degli attori, che sempre più spesso finisco con l’imparare ad essere simpatici e interessanti alle persone che gli potrebbero dare un lavoro, invece che specializzarsi sulla recitazione. … e questo all’Inferno.
Al Paradiso … in un sistema così sgangherato dove non esiste un mainstream teatrale, dove fare teatro non è mai normale, ma sempre un evento straordinario, noi facciamo ogni spettacolo come se fosse l’ultimo, non uno dei tanti spettacoli. Ognuno mette in gioco, un carico di desiderio, di impegno, decisamente considerevole.

 

Quindi il teatro italiano è davvero avanguardia? Proprio in relazione con quello che sta succedendo al Teatro Valle ma anche al Teatro Marinoni (Venezia), possiamo di aria nuova nel mondo teatrale italiano?
Nel teatro italiano ho la sensazione che si sia sempre respirata un’aria nuova, il problema è che quest’aria nuova non è mai diventata respirabile. Mai sistema. Il sistema è sempre quello vecchissimo, si sperimenta di continuo, però è molto difficile che ci sia relazione tra le due cose. Quando si parla di innovazione si fa riferimento sempre ad eventi episodici, spesso legati a una persona, destinati a finire con più o meno rapidità. Quello italiano è un teatro di figli unici invece che di fratelli.

L’esperimento interessante del Teatro Valle è quello di avere una gestione del sistema teatrale dal basso. La democrazia applicata al teatro è l’annoso problema, spesso considerata incompatibile con l’evento artistico che è molto individualista. Uno spettacolo è la messa in scena di un sogno ed è difficile che un sogno, proprio perché la sua natura irrazionale, sia sognato da più di una persona o addirittura condiviso. Però se applichiamo il modello democratico non tanto al contenuto, quanto piuttosto alla gestione del sistema teatrale vero e proprio, diviene possibile ragionare di alcuni schemi. Chi, come me, ha partecipato all’occupazione del Teatro Valle crede fortemente che sia possibile, se non addirittura doveroso, considerare la cultura bene comune e rielaborarla con strutture organizzative che non siano né pubblico, né privato ma qualcosa di altro. Soprattutto nel nostro paese dove pubblico e privato funzionano nella stessa maniera. 
Nel privato c’è un prepotente che fa i comodi suoi con i soldi suoi, nel pubblico c’è un prepotente che fa i comodi suoi con i soldi pubblici. 

Torniamo a te… Sei di Rocca Grimalda – un piccolo borgo medioevale dell’Ovadese -, quanto vivi ancora queste zone?
Vivo tendenzialmente a Roma, ma anche dove lavoro, per cui molto molto spesso in giro, però mi piace tornare, e passare qui del tempo. Ci sto volentieri e mi piace giocare con la terra. E’ un posto dove scrivo bene, per cui quando posso trascorro qui dei periodi. Purtroppo è molto difficile lavorarci, questa è la seconda volta dai tempi di “Texas” che lavoro in provincia, sono passati sei anni.

E nel mezzo ci sono tutti i lavori in Europa…
Già, però qui no. E’ una questione di realtà produttive, a dire il vero “Texas” era un produzione romana – sono stato io a portarlo ad Ovada -. Questo spettacolo, invece, parte proprio da qui, è prodotto dal Teatro Regionale Alessandrino.
Speriamo bene. E’ importante che Alessandria riesca a continuare ad essere un centro di produzione, a costruirsi un pubblico, a fare tutte quelle che cose che deve fare un sistema teatrale, uno spazio aperto che interagisce con la società, che non è un contenitore di generici eventi.

Pausa finita, rientriamo. Mi siedo ancora un po’ in platea. Le luci si abbassano e ricominciano le prove. Qui si respira un’aria diversa.

 

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